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Lipari e le Eolie: cosa vedere e mangiare

…e quann’ passa chistu ferry boat
ca luntano ce porta
e nun ce fa penzà’
primma c’arriva cchiù forte sta botta
quaccheduno ci adda purtà’.
It’s a new world…

(Ferry Boat  di Pino Daniele)

Namastè amici! Si parte per una nuova avventura, questa volta tutta siciliana: breve ma intensa, fatta di isolette, spiagge e tanto buon cibo, la meta di oggi sarà LIPARI E LE SUE SORELLE.

E giungemmo all’isola Eolia. Qui dimorava
Eolo, caro agli dei, Poi quando licenza gli chiesi di andarmene
non rifiutò, ma prese a cuore il mio viaggio;
spogliò delle cuoia un bove novenne
un otre ne fece, e dentro vi chiuse
dei venti ululanti le vie: custode l’aveva
dei venti fatto il cronide, e poteva
quieti tenerli o incitarli a sua voglia.”

(Odissea  libro X, vv 1-25)

Tra mito e leggenda nasce una delle storie più affascinanti e coinvolgenti che dà il nome alle sette perle del mar Tirreno: infatti, secondo la mitologia greca, le isole Eolie prendono il nome dal Dio dei venti Eolo, i cui venti incontrollati avevano generato il distaccamento della Sicilia dal continente e, quindi, suo era il compito di custodirli e liberarli dalla sua dimora nell’arcipelago Eoliano.
Isole magiche, cullate da mare, terra ed aria, ricche di spettacolari paesaggi dai mille colori… la mia continua ricerca di posti magici mi conduce fin qui dopo un lungo viaggio in auto, attraverso tutto lo stivale fino alla sua punta estrema, per poi imbarcarci sul mitico “Ferry Boat” che porta con sé ricordi ed emozioni di milioni di persone (se ne riesce a percepire ancora la vibrazione, stando sul ponte ad ammirare il panorama mentre finalmente si arriva a destinazione).

Arrivati fummo.

Prima pausa d’obbligo si fa lungo il percorso Messina – Milazzo, da dove ci imbarcheremo per una minicrociera delle Isole Eolie. È ora di colazione e il mio stomaco urla CANNOLOOOOOOO!!!
Non si può far altro che accontentarlo: sosta al Bar Pasticceria Merrina Gaetano, tipica pasticceria sicula, piccola e centrale (alla fine di corso Umberto nella zona dei traghetti).
Dopo aver onorato uno dei cannoli più buoni della Sicilia, si prosegue per la nostra meta finale, Lipari.
Finalmente ci siamo, i profumi di questa terra inondano i miei sensi, un mix di salsedine, gelsomini, agrumi e zolfo mi portano direttamente nel mondo magico che immaginavo, la mia fantasia galoppa veloce ed io mi lascio trasportare al solito senza alcuna remora…

Un giro d’obbligo dell’isola ci permette di godere, anche se per poco, delle bellezze del territorio: Canneto e le sue spiaggette, Quattrocchi e i suoi panorami mozzafiato con visita alla cantina vinicola “Tenuta di Castellaro”, il Parco Archeologico e la Cattedrale di San Bartolomeo…
Lipari resta per me lo “scoglio” perfetto dove poter sedere e sognare, quasi come un gabbiano che, libero, vola da un posto all’altro sostando ogni tanto ad ammirare ciò che di bello lo circonda.
La giornata è appena iniziata ma abbiamo tante cose da vedere e da fare, una minicrociera ci permetterà di apprezzare anche le altre isole: VULCANO e la sua spettacolare “Spiaggia dell’Asino” di sabbia nera; PANAREA e le sue bellissime baie; STROMBOLI e il “Pertuso” il porto più piccolo del mondo; SALINA con la ormai famosa Baia di Pollara, celebre per essere stata il set del film “Il Postino”, diretto dal mio caro concittadino Massimo Troisi.
È proprio qui che decidiamo di sostare per un light brunch, detta in dialetto partenopeo “a ‘marenna”, la location è perfetta e multicolore: il verde dei capperi, il blu del cielo e del mare e il rosso del pomodoro del nostro piatto speciale tipico di queste zone, il “Pane Cunzato”, accompagnato da un buon bicchiere di vino di Salina, famosa la sua Malvasia, che produce Nino Caravaglio nell’azienda una volta appartenuta al padre.
La giornata volge ormai al termine, il sole inizia il suo cammino verso l’orizzonte e la mia mente è piena ormai di colori e storie fiabesche raccolte qui e là, tra un’isola e l’altra, tra stradine, calette e bianche chiesine isolate.

Ritorniamo in serata a Lipari per poi organizzare il rientro a casa per l’indomani… il vento di Eolo mi scompiglia pensieri e capelli ed io lo lascio fare… Approfitto, anzi, dell’energia per una figura Yoga per la respirazione UJJAYI detta anche “Il respiro vittorioso”, perché vittoriosa è stata questa mia giornata, spero lo sia stata anche per voi.

Betty Romano

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Gli Autentici salumi italiani conquistano l’Oriente

Grande successo hanno riscosso Gli Autentici del Salumificio Reggiano all’Hofex di Hong Kong, la biennale internazionale interamente dedicata al food & beverage, che nel 2017 ha festeggiato i primi 30 anni dalla nascita, riconfermandosi la principale manifestazione del settore in Asia e non solo.
Libero Spiezia, Presidente de Gli Autentici commenta così la loro partecipazione all’evento:

All’Hofex è andata benissimo, i nostri prodotti sono stati apprezzati dai principali buyer della GD e soprattutto chef internazionali, che hanno visto ne Gli Autentici un partner ideale nel campo dell’alta ristorazione: a Hong Kong è stata riconosciuta la qualità dei nostri prodotti, tutti Made in Italy.
In particolar modo, sono stati apprezzati il nostro prosciutto crudo, Principe dell’Irpinia e il Rostino Reggiano, un prodotto di alta gastronomia dal sapore unico, ottenuto dal lombo di maiale aromatizzato al rosmarino.

Un’esperienza da ripetere, quindi.
Sicuramente da ripetere. All’Hofex abbiamo avuto l’occasione di toccare con mano come i prodotti di qualità, e in più 100% italiani, siano apprezzati e riconosciuti a livello internazionale. Il mercato estero è certamente un focus su cui orientare il nostro business.

Progetti per il futuro?
Prossimamente saremo a Singapore e a Shangai. A novembre, poi, ci aspetta un grande appuntamento: siamo stati scelti per partecipare alla serata di gala organizzata dalla Camera di Commercio italiana a Hong Kong.
Alla cena di gala, a cui prenderanno parte ospiti illustri da tutto il mondo, Gli Autentici rappresenteranno con orgoglio i prodotti della salumeria italiana.

 

 

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RaiTre intervista la nostra esperta Patrizia Spigno

Nella puntata di Indovina chi viene a cena dal titolo Il Pomo d’oro, andata in onda ieri sera, 29 maggio, a parlare di semi, salsa, oro rosso e San Marzano, c’era anche Patrizia Spigno, Genetista della Banca del Germoplasma della Regione Campania, che abbiamo l’onore di ospitare nella nostra rubrica “La parola all’esperto”.

Che pomodoro si nasconde nei barattoli che compriamo al supermercato?

Questo è stato l’argomento portante della puntata curata da Sabrina Giannini e Marcello Brecciaroli, che ha evidenziato come, purtroppo, il pomodoro da trasformazione non ha neanche più un nome, ma solo una sigla, quella del seme industriale da cui è prodotto. Un seme ibrido, dato che almeno il 90 % dei pomodori in commercio oggi viene realizzato con semi nati da incroci a tavolino, al servizio di maggiore produttività e resistenza.

In controtendenza rispetto alle grandi multinazionali, nella trasmissione di RaiTre (dal minuto 9.30) Patrizia Spigno spiega come, insieme ad altre figure del suo campo, e anche alle istituzioni come ribadisce ella stessa, “ha salvato il San Marzano”, preservandone la varietà, ma anche il gusto e il sapore.

>>>Per saperne di più, guarda il video
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Indovina chi viene a cena, in onda ogni lunedì su RaiTre a partire dalle 21.05, è un programma di Sabrina Giannini, autrice di inchieste storiche di Report: un programma sull’alimentazione, un percorso tra miti e salute, interessi che orientano il mercato e comode abitudini, una trasmissione che ha come obiettivo centrale l’in-formazione dei consumatori. Conoscere, informarsi, sapere esattamente cosa portiamo nei nostri piatti è importantissimo, poiché “Saremo domani quello che mangiamo oggi”.

Amabile Amato




Il pomodoro in Campania

La storia

La pianta è originaria del Cile e dell’Ecuador, dove per effetto del clima tropicale offre i suoi frutti tutto l’anno, mentre nelle nostre regioni ha un ciclo annuale limitato all’estate, se coltivata all’aperto. 
Dominatore della gastronomia napoletana e largamente diffuso in tutto il mondo per il suo gusto oltre che per le sue importanti proprietà dietetiche, il pomodoro ha tuttavia raggiunto le cucine europee in tempi relativamente recenti e, sebbene importato già nel Cinquecento, soltanto due secoli dopo è stato impiegato nell’alimentazione. 

La coltivazione della pianta del pomodoro era diffusa già in epoca precolombiana in Messico e Perù, fu poi introdotta in Europa dagli Spagnoli nel XVI secolo, ma non come ortaggio commestibile, bensì come pianta ornamentale, ritenuta addirittura velenosa per il suo alto contenuto di solanina, sostanza considerata a quell’epoca dannosa per l’uomo. Infatti, nel 1544 l’erborista italiano Pietro Matthioli classificò la pianta del pomodoro fra le specie velenose, anche se ammise di aver sentito voci secondo le quali in alcune regioni il suo frutto veniva mangiato fritto nell’olio. 
Inoltre, al pomodoro venivano attribuiti misteriosi poteri eccitanti ed afrodisiaci e, per tale motivo, veniva impiegato in pozioni e filtri magici dagli alchimisti del ‘500 e del ‘600. Forse ciò aiuta a comprendere anche i nomi che le varie lingue europee attribuirono a questa pianta proveniente dal nuovo mondo: love apple in inglese, pomme d’amour in francese, Libesapfel in tedesco e pomo (o mela) d’oro in italiano, tutte definizioni con un esplicito riferimento all’amore. Va ricordato, per completezza, che altre fonti fanno risalire il nome ad una storpiatura dell’espressione pomo dei Mori, giacché il pomodoro appartiene alla famiglia delle solanacee cui appartiene anche la melanzana, ortaggio a quei tempi preferito da tutto il mondo arabo. Oggi, con l’eccezione dell’italiano, le vecchie espressioni sono state sostituite in tutte le altre lingue da derivazioni dell’originario termine azteco tomatl. Ma, anche in questo caso, il nome è frutto di un errore.
La pianta che fu importata in Europa era chiamata dagli Aztechi xitomatl, che significa grande tomatl. La tomatl era un’altra pianta, simile al pomodoro, ma più piccola e con i frutti di colore verde-giallo (chiamata oggi Tomatillo ed impiegata nella cucina centro-americana). Gli Spagnoli chiamarono entrambe tomate e ciò diede origine alla confusione.

Non è ben chiaro come e dove, nell’Europa barocca, il frutto esotico di una pianta ornamentale, accompagnata da un alone di mistero e da una serie di credenze e dicerie popolari, comparisse sulla tavola di qualche coraggioso (oppure affamato) contadino. Infatti, gli stessi indigeni del Perù, i primi coltivatori del pomodoro, non mangiavano i frutti della pianta, usata invece a solo scopo ornamentale e come tale fu conosciuta dagli Europei: nel 1640 la nobiltà di Tolone regalò al cardinale Richelieu, come atto di ossequio, quattro piante di pomodoro, e sempre in Francia era usanza per gli uomini offrire piantine di pomodoro alle dame, come atto d’amor gentile. Così la coltivazione del pomodoro, come pianta ornamentale, dalla Spagna, forse attraverso il Marocco, si diffuse in tutto il bacino del Mediterraneo, trovando il clima adatto per il suo sviluppo, soprattutto in Italia, nella regione dell’agro nocerino-sarnese, tra Napoli e Salerno.

Scarsissima è, inoltre, la documentazione relativa all’uso alimentare: le prime sporadiche segnalazioni di impiego del suo frutto come alimento commestibile, fresco o spremuto e bollito per farne un sugo, si registrano in varie regioni dell’Europa meridionale del XVII secolo. Soltanto alla fine del Settecento la coltivazione a scopo alimentare del pomodoro conobbe un forte impulso in Europa, principalmente in Francia e nell’Italia meridionale. Ma mentre in Francia il pomodoro veniva consumato soltanto alla corte dei re, a Napoli si diffuse rapidamente tra la popolazione, storicamente oppressa dai morsi della fame! Nel 1762, ne furono definite le tecniche di conservazione in seguito agli studi di Lazzaro Spallanzani che, per primo, notò come gli estratti fatti bollire e posti in contenitori chiusi non si alterassero. In seguito, nel 1809, un cuoco parigino, Nicolas Appert, pubblicò l’opera L’art de conserver les substances alimentaires d’origine animale et végétale pour pleusieurs années, dove fra gli altri alimenti era citato anche il pomodoro.

Negli Stati Uniti ed in genere nelle Americhe, da cui proveniva, l’affermazione del pomodoro come ortaggio commestibile trovò invece molte più difficoltà per la diffusa convinzione popolare dei suoi poteri tossici. Tuttavia, nel 1820 il colonnello statunitense Robert Gibbon Johnson decise di mangiare, provocatoriamente, davanti ad una folla prevenuta e sorpresa, un pomodoro senza per questo morirne. Addirittura, si narra, che alcuni avversari politici del Presidente americano Abrahm Lincoln convinsero il cuoco della Casa bianca a preparare una pietanza a base di pomodoro per avvelenarlo. Ovviamente, dopo la cena, la congiura fu scoperta, anzi l’episodio contribuì a rendere popolare il pomodoro, poiché Lincoln ne divenne un appassionato consumatore.
Ma è solo nell’Ottocento che il pomodoro fu inserito nei primi trattati gastronomici europei, come nell’edizione del 1819 del Cuoco Galante a firma del grande cuoco napoletano di corte Vincenzo Corrado, dove sono descritte molte ricette con pomodori farciti e poi fritti: 
“Per servirli bisogna prima rotolarli su le braci o, per poco, metterli nell’acqua bollente per toglierli la pelle. Se li tolgono i semi o dividendoli per metà, o pure facendoli una buca.” (da Il cuoco galante, prima ed., Napoli 1773) 

Come risulta anche da altre fonti Vincenzo Corrado usava il pomodoro nelle sue ricette già all’epoca della prima edizione del libro, ma senza mai abbinarlo alla pasta né tantomeno alla pizza!
Finalmente nel 1839, il napoletano Don Ippolito Cavalcanti, Duca di Buonvicino, codificando quello che presumibilmente era diventata nel popolino un’usanza alquanto diffusa, nella seconda edizione della sua Cucina Teorico Pratica propose di condire la pasta col pomodoro ed illustrò la prima ricetta del ragù. 

E, citando la Serao, la geniale intuizione di abbinare il sugo di pomodoro alla pasta e poi alla pizza ha reso felici e continuerà a rendere felici non solo generazioni di napoletani, ma tutti coloro che amano ed apprezzano la nostra cucina.

Patrizia Spigno




L’“Alfabeto essenziale della cucina napoletana”

Questa rubrica è tratta dal Libro che ho scritto insieme al mio amico Giancarlo Panico dal titolo “Alfabeto essenziale della cucina napoletana”. Cercherò nei vari “post” relativi ai termini legati alla cucina partenopea di tracciare una strada di conoscenza e consapevolezza di quello che rappresenta la cultura gastronomica napoletana.
Sulla cucina napoletana, in questi anni, è stato detto e scritto di tutto. Eppure ci sono ancora tantissime persone, anche napoletani, che non conoscono l’origine di alcuni piatti, perché si preparano in un certo modo, perché si usano determinati ingredienti o si seguono veri e propri riti nella loro preparazione, come per il ragù o la genovese. In questo spazio non si aggiungerà nulla a ciò che già si conosce. Ci si propone piuttosto di essere una chiave di lettura per apprezzare ciò che mangiamo e provare a prospettare una visione dell’alimentazione quotidiana più ampia che, ancor prima di essere fisiologica, è sociale e culturale.

Perché proporla in forma di alfabeto?

L’alfabeto è l’insieme delle lettere che servono per costruire le parole e il linguaggio, se non lo si conosce e lo si padroneggia bene, è difficile parlare bene. Lo stesso principio vale anche per la cucina napoletana: se non si conoscono gli alimenti, la storia di piatti e pietanze, finanche la loro etimologia, non si potranno mai apprezzare.

I vari post che leggerete nascono da un lungo lavoro di ricerca e documentazione sugli alimenti, i cibi, i piatti e le pietanze della cucina napoletana, ma anche dai racconti e dalle testimonianze di chi, con la cucina napoletana, ci vive e ci lavora quotidianamente. Non hanno e non potrebbero avere la pretesa di essere esaustivi e per questo vengono proposte solo alcune voci (quelle che in questi ultimi anni abbiamo studiato, cucinato e… soprattutto assaggiato a più tavole e nelle interpretazioni di cuochi e chef diversi).
Certamente non saremo buoni scrittori ma sicuramente siamo buoni mangiatori!

Fofò Ferriere

Di seguito un “assaggio” del primo termine tratto dal libro:

ACCIO (Sedano)

Ingrediente fondamentale della cucina napoletana. Dalla minestra maritata alle settecentesche zuppe di legumi, verdure e ortaggi, è immancabile nelle più diffuse e note ricette della tradizione: dal ragù alla genovese alla bolognese napoletana, alla pasta e patate. E se la zuppa di accio (e baccala) è una delle ricette tipiche della tradizione irpina e più in generale dell’entroterra campano, dove si prepara e si consuma come pranzo della vigilia di Natale, a Napoli il suo uso in cucina si perde nella notte dei tempi. L’impiego del sedano era già noto ai tempi di Apicio, che lo consiglia nei purè di legumi, molto diffusi in epoca romana, e nelle farinate, ma è a Napoli che diviene popolare.
Se oggi è stato nobilitato ed è presente in molti aperitivi, da consumare con le salse più diverse, dalla classica maionese alla tartara, alla salsa rosa o immancabile nelle insalate e nelle diete, per molti secoli è stato utilizzato, al pari della cipolla, come rudimentale “cucchiaio” da zuppa di legumi. Il termine napoletano “accio”, che si ritrova anche in altri dialetti, deriva dal latino apium (il nome del sedano è proprio apium graveolens), conosciuto e utilizzato come pianta medicinale fin dai tempi di Omero. Ancora oggi a tocchetti, soffritto con carote, zucchine, patate e cipolle, costituisce la base per molti sughi e salse, di cui la più buona è quella che a Napoli viene chiamata “finta genovese”.

Alle prossime pietanze…

Fofò Ferriere
Giancarlo Panico