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Aspettando i Nastri d’Argento: anche De Cecco partner dell’occasione

Nella gestione dell’accoglienza e dell’hospitality nelle giornate siciliane dei Nastri d’Argento 2017, come sempre, Dispensa Italiana porta tutta la sua esperienza maturata nei grandi appuntamenti mondani nazionali. Per fare questo, insieme a Gruppo Eventi, si affida a partner con cui ha instaurato un rapporto di collaborazione consolidato, che diventa sempre più stretto, evento dopo evento.

Tra le eccellenze e le bontà italiane selezionate per accompagnare quest’edizione dei Nastri d’Argento, naturalmente non poteva mancare un partner come De Cecco, ormai sinonimo di ottima pasta e garanzia di qualità.
Una pasta protagonista della tavola degli italiani da più di 130 anni, ancora una volta accompagnerà il più antico premio cinematografico italiano, al mondo secondo per anzianità solo ai premi Oscar.




Aspettando i Nastri d’Argento: le star del cinema brinderanno con Tenuta Fontana

I preparativi fervono al Belmond Grand Hotel Timeo di Taormina che, domani sera, ospiterà l’esclusivo Galà Dinner che segue la premiazione della 71esima edizione dei Nastri d’Argento. Una speciale notte di festeggiamenti andrà in scena sulla terrazza dell’hotel, location d’eccezione che, recentemente, ha ospitato anche molti momenti ufficiali dello scorso G7, tenutosi proprio a Taormina.

Accanto alle delizie siciliane, che allieteranno il palato delle decine e decine di ospiti attesi, ci sarà, come l’anno scorso, anche l’Asprinio di Aversa DOC Civico 44 di Tenuta Fontana.
Da tempo partner di Gruppo Eventi, per l’occasione, Tenuta Fontana sceglie di portare a Taormina questo classico bianco campano, un vino caratterizzato da un sapore fruttato e floreale che declina notevole sapidità e un sentore classico di melannurca. Particolare sapore, quindi, ottenuto anche grazie alla particolare metodologia di produzione: per dar vita al Civico 44, infatti, vengono utilizzate uve coltivate con il sistema dell’alberata, viti che arrivano a 9 metri di altezza.
In alto i calici, quindi, e che vinca il migliore!




Aspettando i Nastri d’Argento: vi presentiamo Giuseppe Contarini, referente Gruppo Eventi per la Sicilia

La cerimonia di premiazione dei Nastri d’Argento, che si terrà a Taormina il prossimo 1° luglio, è sempre più vicina: location, ospiti e cibo d’eccezione saranno i protagonisti assoluti della cena di gala curata per l’occasione da Dispensa Italiana.

Per garantire un servizio efficiente su ogni territorio in cui si svolgono i vari eventi per cui Dispensa Italiana cura l’accoglienza, nel corso degli anni, Gruppo Eventi ha sviluppato una preziosa rete di collaboratori in tutta Italia: per la Sicilia, regione che ospita la premiazione dei Nastri d’Argento, il referente è Giuseppe Contarini, biologo degli alimenti, conduttore radiofonico, ma anche attore, sia in web-serie che in alcune partecipazioni al cinema, con un passato da assistente alla regia e ispettore di produzione in un lungometraggio. Un personaggio interessante da tempo nelle fila di Gruppo Eventi che, stavolta, ci racconta più da vicino la fase organizzativa che precede uno degli eventi più importanti per il cinema italiano.

Per Gruppo Eventi sei il referente per la Sicilia: come si articola il tuo ruolo ai Nastri d’Argento?Ormai questo è il 6° anno di fila che mi occupo dei Nastri d’Argento: la squadra è così collaudata che davvero il mio ruolo si riduce ad un paio di telefonate ed una e-mail, il tutto pochi giorni prima dell’evento… Lo dico con un pizzico di ironia, ma è anche un po’ la verità, nel senso che il lavoro che è stato fatto in questi anni e il team che si è creato e consolidato è talmente efficiente che davvero ormai va tutto in automatico: edizione dopo edizione, siamo stati bravi a mettere insieme degli artigiani del cibo che ormai sono praticamente presenti in tutti gli eventi più importanti sul nostro territorio e non solo. Questa è la più grande soddisfazione, sia mia che di Vincenzo Russolillo e Fofò Ferriere, con i quali cinque anni fa abbiamo scoperto e collaudato questa task force del cibo di qualità, artigianale e tipico siciliano: Lillo Freni come pasticcere, Tommaso Cannata come maestro Panificatore e Fabrizio Scaramuzza come promotore delle eccellenze enogastronomiche tipiche, grazie anche al sostegno della Fondazione Albatros di Messina che da sempre ci supporta, anzi ne approfitto per ringraziare pubblicamente la Presidente, Dott.ssa Elvira D’Orazio.

Cosa prevedi per quest’edizione?
Il solito grande successo (ride): ormai ci ripetiamo nel tempo, Vincenzo Russolillo sa che quando viene in Sicilia può dormire sonni tranquilli, è facile fare le previsioni quando “squadra che vince non si cambia”…

Quali novità ci saranno e, invece, quali sono i punti fermi ormai consolidati, le “tradizioni” da rispettare?
Ciascun soggetto coinvolto, sono sicuro, si è organizzato per presentarci qualcosa di nuovo. Per quanto riguarda le tradizioni da rispettare è facile, siamo in Sicilia: non mancheranno cannoli e paste di mandorla, Pidoni e focaccia messinese, così come per quanto riguarda i punti fermi sono sempre loro, NonsoloCibus, Tommaso Cannata e Lillo Freni, oltre che il sottoscritto, poi eventuali altri coinvolgimenti non sono esclusi, anzi, sempre ben accetti, e magari saranno la sorpresa di quest’edizione, per il piacere del palato di tutti gli ospiti.

A Taormina va in scena il grande cinema italiano: qual è il tuo punto di vista sul binomio cibo – cinema?
Il cibo si abbina con tutto, perché in ogni evento prima o poi arriva quel momento in cui bisogna fare una sosta ristorativa, dove magari se ne approfitta per fare un po’ di pubbliche relazioni o, eventualmente, ritagliarsi uno spazio da dedicare, ad esempio, alle interviste ecc.
In più, il cibo nel cinema non manca mai, se poi sei in Sicilia… con il cibo si raccontano le storie del posto, le tradizioni e la cultura, è anche la migliore forma di ospitalità per chi ci viene a trovare. Ognuno usa le armi che ha e la Sicilia, e soprattutto Taormina, di queste armi ne ha da vendere, cibo e paesaggio qui la fanno da padroni.

Progetti per l’immediato futuro?
Stiamo già pensando a Miss Italia, anche perché lavorare per Gruppo Eventi significa non fermarsi mai: come il Presidente Vincenzo Russolillo insegna, bisogna lavorare per un evento pensando già al prossimo.




Rossopomodoro al Napoli Pizza Village 2017

Scende in campo la squadra femminile delle donne pizzaiole 

La scuola di pizza di casa Rossopomodoro torna sul lungomare più bello del mondo dal 17 al 25 giugno, nello spettacolare contesto del “Napoli pizza village“,  con due lezioni ogni sera dirette dai grandi maestri Pizzaiuoli.  Quest’anno la grande novità è che il team di casa Rossopomodoro, capitanato da Clelia Martino e gli chef executive Rossopomodoro Enzo De Angelis e Antonio Sorrentino, ha scelto come protagonista delle lezioni le donne. Infatti, ci saranno ben 6 Pizzaiuole nel calendario delle lezioni, che insegneranno a fare la pizza fritta e successivamente partiranno per una grande tournée di lezioni e show Cooking di pizza in tante città d’Europa!
Sono Teresa Iorio campionessa mondiale 2015, Assunta Pacifico, Angela Palmieri, Adriana Viola, Isabella De Cham e Anna Autiero.

Viva la pizza è il motto storico della scuola di Casa Rossopomodoro che quest’ anno sarà accompagnato anche da “viva le donne“! Già vanno a ruba le prenotazioni dei posti ai banchi della scuola ma c’è ancora posto per iscriversi  con un contributo minimo di 10 euro che sarà direttamente versato dagli iscritti a favore dell’associazione Onlus Un Cuore per Amico del Dott.Vosa. 

Ufficio Stampa Sebeto

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Il Babà è una cosa seria

Il babà è una cosa seria e con lui non si scherza, è una cura che fa bene e non inganna, è come un ciuccio di un neonato, come la coperta di Linus, se cercate un antistress, compratevi un babà.

Queste le frasi di una canzone di successo cantata ad un Festival di Sanremo degli anni ‘80 da Marisa Laurito. Ebbene sì, il babà è uno dei dolci italiani più popolari, talmente popolare che nel lessico italiano molte espressioni ed appellativi si riferiscono ad esso. “Si’ proprio nu’ babà” in napoletano, ad esempio, ha diverse connotazioni, se è rivolto ad una donna, esso sta a significare “sei tanto bella e buona” (che meriteresti d’esser mangiata, come un babà!), se rivolto ad un ragazzo, invece, può essere inteso come “sei un sempliciotto, sei buono” (il babà in effetti ha una preparazione semplice).
Esiste, poi, una divertente e colorita espressione partenopea che recita: “Aje voglia ‘e mettere rumma: ‘nu strunzo nun addiventa maje bbabbà” che sta per “Puoi irrorarlo con quanto rhum tu voglia per farlo cambiare e migliorare ma per uno stolto non c’è speranza di cambiamento”.
Come potete vedere, quindi, questo dolce è talmente popolare da essere considerato sacro, una vera istituzione che rappresenta proprio la napoletanità, con tutte le sue contraddizioni, che è capace di esaltare anche le cose più semplici facendole diventare dei veri e propri culti (basti pensare alla pizza).

Dove nasce il babà?

A forma di piccolo fungo, il babà è un dolce delicato. È un dolce semplice, piace quasi a tutti, non è troppo dolce, ma è molto profumato ed è quindi garbato ed elegante nel sapore.
La sua storia è veramente curiosa: come ormai tutti sappiamo, le origini di questo dolce non sono affatto napoletane, sembra sia stato inventato per errore in Polonia, dove lo zar polacco Stanislao Lesczynski, stanco del kugelhupf (dolce tipico polacco) che trovava troppo asciutto, adirato lo prese e lo scagliò contro una bottiglia di rhum, il liquore inzuppò il dolce rilasciando un forte profumo, tanto che lo zar volle assaggiarlo e da allora ne rimase folgorato. Il nome datogli dallo zar fu “Alì Babà” in onore del personaggio di “Le Mille e una Notte”.
Accadde, poi, che lo zar fu detronizzato, scappò in esilio in Francia grazie alla sua parentela con Luigi XV: il dolce da lui tanto amato lo seguì e qui, grazie alla maestria dei pasticceri parigini, la ricetta fu messa a punto e il nome abbreviato in “baba”. Dalla Francia a Napoli il passaggio avvenne ad opera dei “monsù”, cuochi francesi al servizio delle nobili famiglie partenopee, e furono i pasticceri napoletani a trasformarne il nome in “babà”.

Il babà per noi pasticcieri è una sorta di rituale, scandisce il tempo, ci indica le stagioni, è un lievitato, e come tutti i lievitati ha una sua anima che esplode in sapore ed intensità quando, a valle della sua cottura ed il necessario riposo, viene immerso nella vaschetta con il rhum e riprende vita, colore e gusto.
Tutti quelli che, come me, sono entrati in pasticceria da bambini non possono dimenticare l’odore dei babà messi a bagno nel rhum, ed il primo gesto fatto da piccoli apprendisti quando ti insegnano a racchiudere il babà tra i palmi delle mani e stringerlo delicatamente come una spugna per eliminare il rhum in eccesso.

Babà come in pasticceria

Veniamo alle caratteristiche di questo dolce: non deve essere troppo asciutto, né troppo bagnato, non deve essere né molle né duro, non troppo dolce o aromatico, deve avere un colore dorato, ambrato. L’impasto ha come sua caratteristica l’elasticità che si ottiene solo rispettando i tempi di lievitazione. In sé, la ricetta è semplice e prevede due versioni ben distinte, adottate però solo dalle antiche pasticcerie partenopee, dove oltre alla versione classica, se ne aggiunge una che deriva dalla pasticceria francese dei fratelli Julien, in questo caso il babà è a forma di campana e all’impasto si aggiungono uvetta e zafferano.

La ricetta del babà classico

Ingredienti:

Farina 00 gr 500
Zucchero semolato gr 35
Lievito di birra gr 13
Uova intere gr 600
Burro cremoso gr 200
Sale fino gr 10
Bacca di vaniglia gr 1

Procedimento:

Mettere la farina nell’impastatrice con lievito, zucchero e uova; lavorare fino a far prendere corda all’impasto.
Aggiungere poco per volta il burro cremoso (18°) mescolato con aromi e sale; lavorare fino al completo assorbimento.
Cottura in forno statico per i mignon: 12-15 minuti a 180°-190°

Babà: come bagnarlo

Ingredienti:

Acqua gr 500
Zucchero semolato gr 175
Miele d’acacia gr 40
Stecca di cannella gr 8
Scorza intera d’arancia gr 10
Scorza intera di limone gr 3
Rhum bianco 70° vol. gr 100

Preparare uno sciroppo con tutti gli ingredienti tranne il rhum, che va aggiunto una volta che lo sciroppo pronto è diventato tiepido.

Con babà già asciutti utilizzare la bagna a 45-50° C. Se il prodotto è ancora caldo, occorre far abbassare la temperatura della bagna.

Buona dolcezza a tutti!

Antonio Cascone, Chef Pasticciere




Dispensa Italiana ai Nastri d’Argento 2017

Anche quest’anno, si riconferma la presenza di Dispensa Italiana in uno dei più importanti eventi dedicati al mondo del cinema: i Nastri d’Argento. Sezione food di Gruppo Eventi, Dispensa Italiana all’interno dei Nastri d’Argento, ancora una volta, curerà il settore accoglienza, proponendo agli ospiti della kermesse un’accurata selezione di prodotti di qualità tra tutto quanto di meglio offre la tradizione italiana.

Si parte già da questa sera dove, nella splendida cornice del Maxxi di Roma (il museo d’arte contemporanea progettato da Zaha Hadid), saranno annunciate le cinquine dei Nastri d’Argento 2017 e i vincitori di premi e riconoscimenti speciali: una vera e propria anticipazione della cerimonia di premiazione dei Nastri d’Argento che, anche quest’anno, si terrà nel Teatro Antico di Taormina, il 1° Luglio. In quell’occasione, come da diversi anni, i prodotti Dispensa Italiana saranno protagonisti della cena di gala che seguirà la premiazione.

I Nastri d’Argento, il premio cinematografico italiano più antico e, al mondo, “più giovane” solo dei premi Oscar, attraverso il giudizio dei giornalisti cinematografici iscritti al SNGCI, ogni anno premiano i migliori film, ma anche gli autori, gli interpreti i produttori e i tecnici.

Amabile Amato




Il finto menù Napoletano

Dai periodi di carestia, si sa, vengono fuori le idee più strabilianti, si aguzza l’ingegno, si inventano cose per far fronte a necessità impellenti e a cui non si può far fronte per mancanza di risorse.

E così accade in cucina, e soprattutto in quella Partenopea, lì dove inventiva ce n’é da vendere e dove i periodi di carestia nella storia non sono stati pochi. Ecco che allora qualcosa dove saltar fuori per arricchire ciò che ricco non è, per festeggiare un qualsiasi evento con l’idea che in quel giorno si può santificare la festa con tutto quello che di più buono si può mettere in tavola.

 Ma senza risorse come si fa?

Come si sopperisce ad una carenza che è proprio di base perché manca, per esempio, l’ingrediente principale da cui la ricetta di una prelibata pietanze prende il nome?

E qui la genialità del popolo napoletano viene in soccorso e voi direte: come si potrebbe fare mai? La risposta è: escludendo semplicemente l’ingrediente principale, gustoso e caro ma lasciandolo nel nome che si da a quella pietanza. E che cosa si ottiene in questo modo? È semplice: i Napoletani, attraverso il loro intuito formidabile, hanno tradotto ciò che riportano tante teorie e studi socio-psicologiche sulla formazione del gusto nel cervello e soprattutto quella per la quale noi arriviamo alla degustazione con un’idea preesistente dell’esperienza gustativa che stiamo per avere. Ecco, quindi, che gli spaghetti a vongole, senza vongole, diventano gli spaghetti alle vongole “fuiute” (scappate): in questo modo, quando assaggiamo il piatto, recuperiamo nel nostro cervello il ricordo del piatto originale e ci avviciniamo al gusto che già conosciamo.

Pazzesco vero? Provare per credere!!!

A presto con i finti menù…

Fofò Ferriere
Gennaro Fierro




L’Olio di Oliva nella storia

L’olivo è una pianta antichissima, la sua storia e quella dell’uomo sono legate da oltre 7.000 anni. Testimonianze dell’importanza di questa pianta nella vita dell’uomo sono presenti in diverse civiltà e religioni. Nella Bibbia il ramoscello d’ulivo è (insieme all’arcobaleno) il simbolo della pace tra Dio e gli uomini dopo il diluvio universale.

L’ulivo e l’olio compaiono anche nel Corano: “Dio è la luce dei cieli e della terra. La sua luce è come una nicchia, in cui si trova una lampada, il suo combustibile viene dall’olio di un albero benedetto, un Olivo”. 
La mitologia greca attribuisce la creazione di questo albero ad Atena, dea della Sapienza. In una competizione con il dio Poseidone, per diventare la divinità protettrice di Atene, la dea fece sorgere una pianta di ulivo da una roccia per donarla agli ateniesi, mentre Poseidone fece comparire dalla foresta un nuovo animale: il cavallo. Gli ateniesi scelsero l’ulivo, perché il cavallo rappresentava la guerra, mentre la nuova pianta avrebbe garantito loro olio, legname e luce e quindi abbondanza e pace.

Dove nasce l’ulivo

L’ulivo è originario del Mediterraneo Orientale, le tracce più antiche sono state trovate ad Haifa, in Israele, e risalgono al V millennio a.C. Le tecniche di coltivazione e di produzione dell’olio extravergine d’oliva vennero invece messe a punto prima dai greci e poi dai roman,i e rimasero sostanzialmente invariate per secoli. Anche la diffusione della pianta si deve ai greci che, nella loro espansione, portarono l’ulivo in tutti i paesi della Magna Grecia, ed ai romani che fecero lo stesso portando la coltivazione dell’ulivo fino in Francia e Spagna. In queste aree, così come in Italia, l’ulivo trovò condizioni climatiche tali da diventare facilmente e ben presto parte integrante del paesaggio. 

Gli utilizzi dell’olio d’oliva sin dall’antichità sono stati i più vari, infatti anche se il ruolo più importante lo riveste nell’alimentazione per la cottura dei cibi e come condimento, l’olio di oliva è anche stato un componente dei cosmetici più antichi, è stato da sempre utilizzato come medicamento, come combustibile e nei riti religiosi.

L’olio extravergine d’oliva è da sempre uno dei prodotti alla base dell’alimentazione dell’uomo. Sia cotto che crudo, è adatto ad ogni età perché facilmente digeribile ed assimilabile. Le sue proprietà nutrizionali e le caratteristiche organolettiche lo rendono, oltre che insostituibile nella gastronomia, anche importante nella prevenzione e cura di molti disturbi e malattie.

Perché l’ulivo è simbolo di pace

Simbolo di sacralità e di pace (la colomba biblica tornò da Noè con un ramo di ulivo nel becco per annunciare il ritiro delle acque dalla terra), l’olivo ha accompagnato la storia dell’uomo dagli albori della civiltà fino ai nostri giorni.
Secondo la mitologia, Atene, capitale dell’Ellade, cuore, centro propulsore intellettuale e politico della civiltà greca, è intimamente legata al suo nume tutelare, alla Glaucopide, dea dagli occhi brillanti come le foglie grigio-verde-argento degli ulivi, ritenuti sostanza di luce e simbolo di sapienza. Per aggiudicarsi il possesso protezione su Atene gareggiarono Poseidone, dio del mare, e Atena, figlia di Zeus, dea della saggezza. Poseidone colpì con il suo tridente la roccia (su cui successivamente sarebbe sorta l’Acropoli) e da questa fece venir fuori una fonte d’acqua marina ed un cavallo più veloce del vento. Atena piantò il primo ulivo, albero che, per millenni, con i suoi frutti avrebbe dato un succo meraviglioso che gli uomini avrebbero potuto usare per la preparazione dei cibi, per la cura del corpo, per la guarigione delle ferite e delle malattie e quale fonte di luce per le abitazioni.

Come l’ulivo sia arrivato dalla Grecia ai giorni nostri, lo scopriremo nei prossimi appuntamenti… Continuate a seguirci!

Fofò Ferriere
Gennaro Fierro




Le vigne metropolitane di Napoli

Quella nella foto è la vigna della certosa di San Martino, la più conosciuta delle vigne di Napoli, uno degli scorci più rappresentati da almeno sei secoli per la sua bellezza. La certosa è in posizione dominante, così la volle Carlo d’Angiò duca di Calabria, nel 1325, istituendo l’ordine dei certosini, particolarmente favorito dai francesi, sul colle di Sant’Erasmo.  È da allora uno dei simboli di Napoli, essendo visibile da ogni parte della città. Sette ettari unici al mondo, oggi sono di proprietà del gallerista Giuseppe Morra che ha saputo valorizzarli, recuperandoli e istituendo l’Associazione Amici della Vigna di San Martino, promotrice ogni anno di eventi culturali ed artistici.
Nel 2010 è divenuta Monumento Nazionale, e rientra nell’affascinante percorso di trekking cittadino, condotto lungo l’antica Pedementina di San Martino, che dalla piazza di ingresso alla certosa, attraverso lunghe e tortuose rampe di ben 414 gradini, raggiunge il centro storico.
Fino a quando non ci si reca di persona, non si può immaginare l’esperienza unica che questa realtà regala rampa dopo rampa, tra orti, vigne, vecchi casali, piccole case fiorite e scorci di panorama mozzafiato.

Quante vigne ci sono a Napoli?

Pochi sanno che Napoli è la seconda metropoli in Europa, dopo Vienna, per estensione di vigneti. Partenope, e poi Neapolis, non hanno voluto perdere l’antica anima vignaiola che in altri tempi occupava totalmente le colline che dal Vomero e Posillipo si estendono fino a tutti i Campi Flegrei.
Oggi, all’interno delle mura della città ne rimangono poco più di 260.000 ettari ed una produzione di circa 64.000 bottiglie. Furono i greci, già prima di Cristo, ad introdurre sulle colline posillipine una viticoltura specializzata, dove la vite era allevata bassa e veniva legata ai tutori, mentre all’interno delle campagne dell’agro-aversano, gli etruschi lasciavano altissime le liane avvinghiarsi agli alberi.
Mentre la vigna di San Martino ha una identità culturale e di tutela del paesaggio, c’è chi tra i vigneti metropolitani continua a fare vino da commercializzare. A suon di zappa, Raffaele Moccia produce ottimi vini napoletani attorno al cratere di Agnano. L’azienda si chiama Agnanum ed i filari di Falanghina e Piedirosso si estendono su strette terrazze composte da terreno quasi polveroso, sottile, friabile che va faticosamente lavorato perché non si disciolga con le piogge. Il suo è stato riconosciuto come vigneto storico e le piante centenarie sono a piede franco, grazie al fatto che su questi suoli la fillossera non attecchisce. Un valore aggiunto notevole che esalta il carattere e rafforza l’identità territoriale dei vini. Le bottiglie di Raffaele sono molto richieste sia in Italia che all’estero, ma pare che lui quasi non se ne accorga.
Le terrazze vitate sono attraversate dal muro di confine del cratere degli Astroni che racchiude un bosco incantato, mentre il cratere di Agnano è stato ingoiato dal cemento dei tanti edifici e della selvaggia speculazione edilizia.
Dall’altra parte degli Astroni, ci sono Emanuela Russo e suo marito Gerardo Vernazzano che hanno fatto un ottimo lavoro di recupero di alcuni terreni dove appunto si producono vini delle vigne metropolitane di Napoli. La doc qui è Campi Flegrei, la cantina è quella degli Astroni a sua volta molto seguita dagli eno-appassionati nazionali ed esteri. Sulla collina di Chiaiano i giovani Luca ed Antonio Palumbo raccolgono uva Falanghina con la quale danno vita alle bollicine partenopee dello spumante Flaegreo. Sempre a Chiaiano, la famiglia Quaranta conduce la cantina Le Vigne di Partenope.
Come avrete capito, la Falanghina è l’uva destinata ai vini bianchi ed il Piedirosso, nella lingua napoletana “pied’e palumm’, ai vini rossi. A Santo Strato, sulle colline di Posillipo, troviamo una chicca, l’uva rosa, quella citata da Ernesto Murolo nella sua meravigliosa canzone del 1904 Pusilleco Addiruso: Ncoppo ‘o capo ‘e Pusillico Addiruso, addò stu core se n’è ghiuto ‘e casa, ce sta nu pergulato d’uva rosa. A portarlo avanti è Salvatore Varriale, proprietario del famoso ristorante Rosiello, insieme ai filari di Fananghina e Piedirosso in un contesto paesaggistico unico ed affascinante che sembra tuffarsi nel mare.

Il fascino di Partenope perdura nei secoli, nei millenni, non è sempre ostentato nella sua bellezza, alcune volte va ricercato in angoli nascosti, di antica memoria, sospesi tra mito, storia e la vita di tutti i giorni. Napoli, anche nella realtà delle vigne metropolitane, rimane città d’amore, come meravigliosamente l’ha decantata Matilde Serao:

Se interrogate uno storico, o buoni e amabili lettori, vi risponderà che la tomba della bella Parthenope è sull’altura di San Giovanni Maggiore, dove allora il mare lambiva il piede della montagnola. Un altro vi dirà che è sull’altura di Sant’Aniello, verso la campagna, sotto Capodimonte. Ebbene io vi dico che non è vero, Parthenope non ha tomba, Parthenope non è morta. Ella vive, splendida, giovane e bella, da cinquemila anni…  È lei che fa folleggiare la città; è lei che fa languire ed impallidire d’amore; è lei che la fa contorcere di passione nelle giornate violente dello agosto. Parthenope, la vergine, la donna, non muore, non muore, non ha tomba, è immortale, è l’amore, Napoli è la città dell’amore”.

Marina Alaimo