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La scarpetta

Dal Dizionario Treccani online e dal Grande Dizionario della Lingua Italiana che la riporta nell’italiano scritto solo nel 1987: «raccogliere il sugo rimasto nel piatto passandovi un pezzetto di pane infilzato nella forchetta, o più comunemente tenuto tra le dita».
La ricordi da bambino la “scarpetta”, quando la domenica mattina, senza farti vedere da mammà, intingevi il pane nella pentola dove “pappuliava” il ragù, e la riporti all’età adulta dove alla fine di uno spaghetto al pomodoro, quasi come un gesto innato, un rituale, prendi il pane e lo fai scivolare nel piatto per recuperare il sugo avanzato.

Gesto di piacere, a cui difficilmente si rinuncia, una sorta di prolungamento di emozione per aver gustato una pietanza particolarmente buona e che avresti preferito non finisse.
Siamo in tanti che al piacere della “scarpetta” non rinunciano, facciamo parte di quella schiera di buongustai che nel cibo cercano il piacere, l’atto consolatorio, il momento in cui alleviare le tensioni con un rituale che racchiude in sé il senso del “godere della vita”.

Tornando all’origine dell’espressione, essa non è proprio chiara. Non si sa quando sia nata perché fa parte del linguaggio comune parlato. C’è chi pensa che la scarpetta rimandi a un tipo di pasta alimentare di forma concava che avrebbe favorito perciò la raccolta del sugo residuo nella scodella o nel piatto, chi invece ritiene sia attribuibile al gesto familiare ma poco elegante dell’espressione, si rifà all’oggetto scarpetta, di solito leggera e sottile, per indicare un’azione compiuta da un “morto di fame”. Non mancano spiegazioni più impegnate: alcuni la attribuiscono alla Siria dove in passato il pane aveva la forma di scarpa perché veniva lavorato e battuto con i piedi e infornato subito dopo, questo pane veniva poi inzuppato nelle minestre di polpa di melanzane con verdure”. Altri, sottolineando l’origine meridionale della locuzione, “scarsetta”, cioè povertà, che costringe ad accontentarsi di quello che è avanzato nei piatti altrui, da raccogliere come fa una scarpa che struscia sul suolo.

Ma la scarpetta è opportuna a tavola?

Il galateo dice che la scarpetta non è proibita ma vuole che si faccia solo in occasioni informali e usando la forchetta e non le mani. Ma diciamo la verità, una scarpetta non infastidisce nessuno. Quando siamo tentati dall’idea, di solito a tavola aspettiamo che qualcun altro compia il gesto per poi seguirlo a ruota e… abbasso il galateo!

Schiere di chef si sono battuti in difesa di questo gesto in questi anni e non sono mancate vere e proprie iniziative gastronomiche volte alla sua valorizzazione. Il Maestro Gualtiero Marchesi ha sempre detto che non c’è nulla di più soddisfacente per uno chef di un piatto che torna in cucina pulito, perché il cliente lo ha letteralmente asciugato col pane fino all’ultima goccia.
Insomma la “scarpetta” è una filosofia di vita, un piacere per le papille gustative e un appagamento per il nostro cervello.
Da oggi in poi, nel fare la scarpetta a fine pranzo ricordatevi di tutto questo e… “celebrate il rito”!

Buon Appetito!!!

Fofò Ferriere
Gennaro Fierro




CAVULUCIORE (Cavolfiore)

Pasta e cavoli si cucina con il pomodoro o senza?
Da almeno due secoli questo interrogativo accompagna uno dei piatti storici della cucina napoletana e oggi di quella italiana. Considerati sacri nell’antichità, venivano consumati crudi dai romani, prima dei banchetti, per far assorbire meglio l’alcool; i greci invece erano soliti utilizzarli come curativo della sbornia.

Usato per secoli come pianta curativa, nel 1600 il brodo di cavolo era consigliato per guarire e prevenire patologie polmonari, ma anche raffreddori, laringiti e reumatismi. Solo tra la metà del ‘700 e l’inizio dell’800, il cavolfiore inizia ad entrare in cucina, divenendone subito uno dei protagonisti indiscussi.
A minestra, con la pasta, lessi e in insalata, i cavoli diventano uno degli alimenti preferiti dai napoletani.

Le cronache del Regno delle Due Sicilie ricordano che tutto attorno alla città di Napoli “era come un grande orto”, e nel 1787 ogni giorno “in città arrivavano grandi quantità di verdure fresche”, tra cui abbondavano i cavolfiori e le torselle. Sin dalla metà del 1700 e per oltre un secolo, i territori della zona Vesuviana, dove i cavoli crescevano rigogliosi grazie alle fertilità del terreno lavico, hanno consentito al Regno delle due Sicilie di essere primo produttore europeo. Quei cavuluciori erano coltivati a Nord e Sud della città alla falde del Vesuvio, tanto che San Giorgio a Cremano, molto probabilmente, deve il suo nome proprio alle coltivazioni estensive di cavolo. La città del compianto Massimo Troisi, infatti, nasce dall’unione di due borghi, San Giorgio, che deve il nome alla venerazione dell’omonimo santo e Cambrano che secondo diverse fonti deriva dal latino arcaico “cambre” che significava proprio “cavolo” dalla fiorente coltivazione di questo ortaggio.

Ma i cavoli si mostrarono molto utili soprattutto alla fine del ‘400 quando, in seguito alla scoperta dell’America, iniziò l’epoca dei viaggi esplorativi. Navigando per lunghi periodi senza avere la disponibilità di cibi freschi, infatti, i marinai avevano sempre a bordo una grossa scorta di cavoli, molto utili per contrastare lo scorbuto, una malattia causata dalla carenza di Vitamina C. Il Capitano James Cook, uno dei più grandi navigatori ed esploratori della storia, durante tre anni di navigazione, in tutte le latitudini e a tutti i climi, non perse nessuno dei suoi 118 uomini dell’equipaggio, dal momento che faceva mangiare loro cavoli cotti o crudi.
I cavuluciori sono l’ingrediente principale anche della famosainsalata di rinforzo” in cui il cavolo, un alimento fondamentalmente “povero” e leggero, viene “rinforzato” con ortaggi sott’aceto come carote, sedano, finocchi e cetrioli, olive bianche e nere, capperi e qualche acciuga salata. Dalle origini incerte, molto probabilmente il Cavalcanti, nella sua “Cucina teorico-pratica”, con il termine “caponata” si riferiva proprio agli ingredienti dell’insalata di rinforzo. Sembra un piatto semplice da preparare eppure a Napoli, e più in generale in tutta la Campania, al pari del ragù o della pastiera, per citare due ricette tradizionali, la sua ricetta e preparazione è ancora oggi molto dibattuta: ognuno ha la sua tecnica che si tramanda da generazioni e quella propria è la migliore.

Almeno tre sono le leggende, o comunque le storie, raccontate in merito a questa squisita pietanza e che provano a dare una spiegazione al nome senza dubbio originale. La più diffusa è quella secondo la quale è detta “di rinforzo” perché, a partire dalla vigilia di Natale, man mano che viene consumata, è usanza “rinforzarla” con gli ingredienti mancanti, ma anche arricchirla con sapori nuovi. Perché è un piatto che, seppur preparato rigorosamente il 24 dicembre, accompagna tutto il periodo natalizio e la presenza dell’aceto preserva la qualità degli ingredienti per più giorni.
Un’altra teoria, invece, fa riferimento al fatto che originariamente l’insalata di rinforzo era una pietanza prevista esclusivamente per il cenone della vigilia di Natale, per tradizione magro, molto leggero, composto solamente da qualche pietanza di pesce. Dunque, la funzione dell’insalata era appunto quella di “rinforzare” la cena rendendola più sostanziosa. La terza motivazione è quella secondo la quale l’insalata, servita come antipasto, aiuta ad aprire lo stomaco, a “rinforzarlo” e prepararlo ad accogliere tutte le altre portate. Molto gustosa e ricca di sapori, ha un sapore deciso grazie anche alla presenza delle cosiddette “papacelle”, peperoni tondi leggermente piccanti conservati sott’aceto, talvolta ripieni. Il piatto si presta ad infinite varianti e infatti ogni famiglia ha la propria ricetta: c’è chi ad esempio aggiunge la scarola, chi invece il capitone avanzato.

Appuntamento alle prossime pietanze…

Fofò Ferriere
Giancarlo Panico

Foto © Pixabay.com/Skeeze




Sorrento: cosa vedere in un giorno

Anche quest’estate è terminata: il sole, il mare, le passeggiate sui lungomari affollati… Quanto abbiamo aspettato per tutto questo e poi… puff… tutto sembra essere sparito nel giro di un paio di settimane. Ebbene sì, soprattutto per alcuni di noi rimasti in città per impegni di lavoro, l’estate è sembrata davvero troppo breve, ma noi Campani siamo davvero fortunati a vivere in questa regione così bella, bagnata dal mare blu così tanto decantato in centinaia di canzoni, antiche e moderne, conosciute in tutto il globo. Proprio per questo, ogni scusa è buona, per me in primis, per scappare dal cemento della città.

Poco meno di un’ora d’auto e raggiungo la mia amata Sorrento, meta delle mie numerose fughe del fine settimana, luogo preferito dove trascorrere qualche ora lontana dal tran-tran di tutti i giorni, dove poter ritrovare colori e sapori antichi da me tanto amati.

“Vide ‘o mare de Surriento
Che tesoro tene nfunno
Chi ha girato tutto ‘o munno
Nun l’ha visto comm’a ccà
Guarda attuorno sti ssirene,
ca te guardano ‘ncantate,
e te vonno tantu bene…
Te vulessero vasà.
E tu dice: “I’ parto, addio!”
T’alluntane da ‘stu core
Da la terra de l’ammore
Tiene ‘o core ‘e nun turnà?
Ma nun me lassà,
Nun darme stu turmiento!
Torna a Surriento,
Famme campà!” 

La mia passeggiata di fine estate inizia già di buon mattino: il sole splende e la musica mi accompagna, come al solito, ovunque io vada. Lungo il tragitto mi godo il panorama, la Costiera Sorrentina è splendida, come sempre: i colori si sposano tra loro perfettamente con la natura rigogliosa della costa, i profumi, i fiori dai mille colori diventano come un abbraccio intorno al mare blu, sempre splendido e scintillante.

Il profumo dei limoni mi fa compagnia fin da subito, forse perché parte ormai del mio DNA. Non può certo mancare, infatti, una sosta ai tanti punti di ristoro locali dove poter sorseggiare una squisita granita fatta con i migliori limoni della zona e il ghiaccio “grattato” al momento da grosse lastre gocciolanti, una cosa semplice da rifare anche a casa, ma che non avrà mai il sapore di quella bevuta lì, ai camioncini a tre ruote colorati e bizzarri che si trovano solo in questi luoghi.
Finita la sosta rinfrescante e doverosa, si prosegue per l’ultimo tratto di costa che mi porterà finalmente nella mia location preferita: Sorrento.

Sono anni che vengo a rintanarmi qui, di tanto in tanto, e di solito pernotto in una struttura semplice e familiare poco distante dal corso principale, un B&B gestito da proprietari che vivono lì da almeno due generazioni.
Qui mi sento come a casa mia, e forse anche meglio, visto il giardino rigoglioso che ci circonda, fitto di alberi di limoni grandi come cocomeri, il panorama mozzafiato, gli ambienti curati nei minimi dettagli, dai colori sgargianti delle tipiche ceramiche locali, e le torte fatte in casa servite a colazione.
Questi luoghi mi fanno rilassare sul serio, qui non mi interessa fare vita mondana, la mia giornata trascorre serena passeggiando tra i tanti vicoletti colorati, ammirandone i luoghi gustando mille prelibatezze locali.

Sosta primaria resta sempre la pausa relax n.1, seduta sotto il gazebo in Piazza Tasso con una coppa gelato al gusto di menta e cioccolato, delicato sapore di latte e menta tempestato da pepite di ottimo cioccolato fondente, credetemi… non ne esistono eguali!
Dopo si continua con la passeggiata tra i vicoletti, dove si trovano interessanti articoli di produzione locale conosciuti ed apprezzati in tutto il mondo: profumi, sandali in cuoio, stoffe con ricami preziosi, spezie e aromi essiccati, articoli in legno intarsiato, gioielli con coralli e pietre dai mille colori e, poi, dulcis in fundo, i famosi liquori a base di caffè, cioccolato o limone.
Una sosta in ognuno di questi negozietti è dovuta, ma in quello dei liquori mi perdo davvero: assaggia uno, prova l’altro e ti ritrovi in un attimo lontano… molto lontano davvero!
È proprio qui che ho preso per voi la ricetta di uno dei liquori più conosciuti ed apprezzati: il Limoncello (in fondo all’articolo).

Sorrento dove mangiare bene

Le mie giornate Sorrentine sono sempre piene di cose da fare e da vedere, mi lascio trasportare dai profumi e dai colori e, come già detto, dai sapori dei piatti tipici della zona. Qui c’è sempre l’imbarazzo della scelta per quanto concerne il buon cibo, ma questa volta non ho avuto alcun dubbio a riguardo, dovevo mangiare a Nerano, la location perfetta per un momento indimenticabile: Ristorante Maria Grazia, rinomato per i famosi “Spaghetti alla Nerano, conditi con un succulento sugo a base di zucchine e formaggio locale, gustati a pochi metri dal mare azzurro e limpido di Punta Campanella.

Le giornate trascorse in questi luoghi restano ben impresse nella memoria, seduti in riva al mare incastrato in questa piccola baia mozzafiato, sentendo il profumo del buon cibo, la musica, i colori tutti intorno a farne da cornice ci trasportano lontano in paesi conosciuti solo nei libri di fiabe… Purtroppo, però, come tutte le cose belle, anche la mia giornata Sorrentina giunge al termine: nelle mie fughe dalla città, sempre brevi ma intense, riesco comunque a ricordare ogni dettaglio e, come al solito, rientro in città felice e soprattutto orgogliosa di essere cittadina di questa Terra magica.

Betty Romano xxx

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Come fare il limoncello di Sorrento

Ingredienti

  • 1 litro di Alcool di buona qualità
  • 6 limoni di Sorrento IGP con buccia molto spessa e profumata
  • 400 gr di zucchero bianco
  • 700 dl di acqua

Prima fase di preparazione:
Lavate e spazzolate i limoni in acqua calda per ripulirli da eventuali residui di insetticidi.
Ponete in una brocca l’alcool e aggiungete i pezzi di scorza aromatica ricavati dalla buccia. Sistemate la brocca coperta in una stanza buia o in una credenza e lasciate macerare la buccia nell’alcool a temperatura ambiente, per circa un mese.
L’infuso assumerà lentamente l’aroma e il colore del giallo del limone.

Seconda fase di preparazione:
Dopo circa un mese di riposo, aggiungete all’alcool un pentolino di acqua e zucchero, che avrete prima portato a ebollizione e poi lasciato raffreddare. Riponete di nuovo la brocca al buio per un altro mese abbondante. Dopo circa quaranta giorni, l’infuso va filtrato nelle bottiglie, scartando le bucce utilizzando una vecchia tela.
Conservare il liquore in freezer.




Ciambella Black&White 

La ciambella bicolore è una di quelle “casalinghe” che ci piace di più, perché ci riporta all’infanzia. A me piace molto a forma di ciambella e so che piace molto anche ai bambini. La chiamo da sempre Black&white, bianca e nera, perché così la chiamava mia nonna.

Preferisco prepararla a forma di ciambella perché ha una forma giocosa, allegra, e poi è bella da vedere una volta tagliata. Le varianti sono veramente tante, la più conosciuta è la cosiddetta ciambella “marmorizzata”, per le caratteristiche venature di cioccolato, molto simili a quelle del marmo. Ogni famiglia ha la sua ricetta, che si tramanda di madre in figlia. Quella che vi propongo, come per gli altri dolci, è semplice da preparare, genuina e gustosa. Ottima per la colazione o la merenda, non solo dei più piccoli.

Ciambella bicolore della nonna

Ingredienti per 8 persone
250 gr di Farina 00 + 2 cucchiai di Farina per la lavorazione
100 gr di Burro 
150 gr di Zucchero
3 Uova medie 
140 gr di latte 
1 bustina da 16 gr di Lievito per dolci 
1 Baccello di Vaniglia o una bustina di Vanillina
1 pizzico di sale 
2 cucchiai di Cacao amaro

 

Procedimento
La preparazione della torta inizia ricordandosi di mettere a temperatura ambiente gli ingredienti conservati in frigo 30′ prima di lavorarli. Il burro va tolto dal frigo ancora prima, circa 1 ora.
In una ciotola montate a crema lo zucchero, il burro, la vaniglia con un pizzico di sale, meglio se con l’aiuto di una frusta; aggiungete le uova continuando a girare e lentamente inserite la farina con il lievito e, a filo, il latte in modo che il tutto sia ben liscio e senza grumi.
A questo punto, dividete l’impasto in due parti uguali: in una aggiungete 2 cucchiai rasi di farina 00, nell’altra 2 cucchiai rasi di cacao amaro.
Prendete un stampo per ciambelle da 24 cm, alto 10 cm, imburrate e infarinate bene e poi iniziate a versare l’impasto 2-3 cucchiai alla volta, alternando quello bianco con quello al cacao.
Una volta terminato di riempire lo stampo, con l’aiuto di uno stuzzicadenti, o con uno stecchino da spiedino, effettuate delle spirali nell’impasto oppure formate dei cerchi, andando anche in profondità.

Quando sfornare il ciambellone

Cuocete a forno statico a 170° per 50 minuti. Valutate la cottura con la classica “prova spaghetto” per verificare se la torta ha raggiunto la cottura perfetta. Se lo spaghetto esce asciutto dai saggi effettuati, potete rimuovere la torta dal forno e lasciarla raffreddare.

Anny Eboli

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Come conservare le alici sott’olio

Nello scorso appuntamento vi abbiamo parlato di alici e acciughe che, come ricorderete, sono solo due diversi modi di chiamare lo stesso tipo di pesce azzurro.
Abbiamo anche visto come poter conservare le alici sotto sale mentre, stavolta, vi illustreremo un altro metodo di conservazione, realizzato utilizzando olio extravergine di oliva.

La conservazione delle alici sott’olio è di più recente diffusione, rispetto a quella sotto sale. È stato infatti nel Settecento che si è cominciata a diffondere, con l’aumentare della disponibilità di oli, anche la possibilità di conservazione che offrisse l’utilizzo dell’olio come condimento.
Le alici sott’olio richiedono molto lavoro di preparazione oltre che un prodotto freschissimo.
È da notare che le alici migliori sono quelle che vengono prima salate e, poi, dopo un mese, conservate sotto un olio extra vergine di oliva. Ma, olio a parte, vediamo le varie fasi di lavorazione:

Ricetta alici sott’olio

  • Occorre innanzitutto una fase di salamoiatura umida o secca. Lo scopo è semplice, ovvero l’immersione del pesce in salamoia serve ad eliminare la maggior quantità di sangue e di sostanze grasse.
  • La seconda fase è la decapitazione ed eviscerazione dell’alice. Questa è una fase importantissima: se non viene fatta bene alcuni residui di viscere possono portare batteri o altri parassiti pericolosi. A questa fase dovrebbe seguire una seconda immersione in salamoia per ripulire ulteriormente le parti ancora sporche di sangue o di escrementi.
  • Successivamente, le alici vanno salate e pressate, e poi fatte “maturare” almeno 30 giorni sotto sale. Dopo questo periodo, le alici vanno infine lavate, desquamate, pulite ed asciugate.
  • Infine vanno filettate, confezionate sott’olio ed alla fine confezionate.

Tra le eccellenze italiane delle alici sott’olio vanno ricordate quelle di Cetara, per il particolare metodo di lavorazione rende le alici estremamente gustose, e quelle di Montecalvo Irpino.

Colatura di alici di Cetara

La ormai celebre colatura di alici di Cetara è una salsa liquida trasparente, dal colore ambrato, che viene prodotta da un tradizionale procedimento di maturazione delle alici in una soluzione satura di acqua e sale. Le alici impiegate sono pescate nei pressi della costiera amalfitana, nel periodo che va dal 25 marzo, che corrisponde alla festa dell’Annunciazione, fino al 22 luglio, giorno di Santa Maria Maddalena.

Le origini di questo prodotto gastronomico risalgono ai Romani, che producevano una salsa molto simile alla colatura odierna, chiamata garum. La ricetta venne poi in qualche modo recuperata nel Medioevo da parte dei gruppi monastici presenti in Costiera, i quali, ad agosto, erano soliti conservare sotto sale le alici in botti di legno con le doghe scollate e poste in mezzo a due travi. Sotto l’azione del sale, le alici perdevano liquidi che fuoriuscivano tra le fessure delle botti.

Colatura di alici: ricetta originale

Fasi di lavorazione:

  • Dalle alici, appena pescate, vengono rimosse la testa e le interiora, sono quindi tenute per 24 ore in contenitori con abbondante sale marino.
  • Vengono poi trasferite in piccole botti di castagno o rovere (dette terzigni), alternate a strati di sale, e ricoperte da un disco di legno sul quale sono posti dei pesi, via via minori col passare del tempo.
  • A seguito della pressione e della maturazione del pesce, il liquido affiora in superficie e, nel caso di preparazione di alici sotto sale, viene rimosso.

Questo è il liquido che fornisce la base per la preparazione della colatura di alici che viene infatti conservato ed esposto alla luce diretta del sole che, per evaporazione dell’acqua, ne aumenta la concentrazione.

  • Dopo circa quattro o cinque mesi, tipicamente quindi tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre, tutto il liquido raccolto viene nuovamente versato nelle botti con le alici, e fatto lentamente colare attraverso un foro, tra gli strati di pesce, in modo da raccoglierne ulteriormente il sapore.

Infine, viene filtrato attraverso teli di lino, ed è quindi pronto per gli inizi di dicembre.

Buon appetito! 

Fofò Ferriere
Gennaro Fierro

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Cruciverba a cura di Fortuna Nuzzo

Foto © Pixabay.com/Silberfuchs




ALLESSE (Castagne lesse)

Quanno siente ‘allesse nuvelle, accuònciate ‘e scarpe e accatàte ‘o mbrell!”.

Trovare le allesse dai castagnari preannunciava l’inverno e la stagione delle piogge, come si evince da questo antichissimo detto popolare: Arrustute, ansertate o allesse. Palluottele o Vallene. Del monaco o del preveto (del prete), quelle prodotte e consumate tradizionalmente nel periodo natalizio.
Le castagne, a Napoli e più in generale in Campania, per secoli primo produttore europeo, sono comunque le “allesse”, anche quando non sono propriamente lesse. Il famoso “cuoppo allesse” (il coppo di allesse), è un’espressione ancora oggi utilizzata per apostrofare una donna non proprio bella. Ancora peggio è ‘o scampolo di allesse, utilizzato in modo dispregiativo da Roberto De Simone ne “La Gatta Cenerentola”.

E se le “allesse” oggi sono confinate alle cucine domestiche, le caldarroste a Napoli, come anche a Roma, non è difficile trovarle lungo le strade anche tutto l’anno, così come un tempo quando il castagnaro, il venditore di castagne allesse e arrostite, era uno dei mestieri più diffusi nella capitale del Regno delle due Sicilie.
Prepararle è semplicissimo! Basta farle cuocere per almeno 15 minuti a fuoco lento in acqua bollente con una foglia di alloro.

Appuntamento alle prossime pietanze…

Fofò Ferriere
Giancarlo Panico

 

Foto © Pixabay.com/Jackmac34