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Acciughe o alici?

Piccoli pesci a lungo bistrattati e destinati al consumo tra le classi più popolari, vivono oggi una nuova giovinezza. Vuoi per le loro carni gustose, vuoi per le notevoli proprietà nutrizionali, vuoi per la sostenibilità delle pratiche di pesca, le acciughe stanno prepotentemente acquisendo un ruolo di primo piano nella nostra alimentazione. È notizia recente, infatti, che alcune scuole elementari hanno introdotto questo “pesce azzurro” nei loro menù settimanali.

Una pesca antica, che affonda le radici nel Mediterraneo, dagli Egiziani ai Greci, dai Romani fino ai nostri giorni, una storia millenaria in pratica. Con la Sicilia che, lungo lo scorrere dei secoli, è sempre stata al centro di quest’attività di pesca, anche con riferimento alla lavorazione di questo straordinario pesce azzurro. Basti pensare agli stabilimenti per la salagione di Sciacca, in provincia di Agrigento o a quelli di Porticello, in provincia di Palermo. Le acciughe sono pesci di piccole dimensioni, con lunghezza compresa tra 10 e 20 cm, appartenenti alla famiglia Engraulidae, che comprende tutte le specie utilizzate per l’alimentazione umana. Tra le principali l’acciuga cilena, Engraulis Ringens, pescata nel Pacifico meridionale al largo delle coste del Cile, e Engraulis Encrasicolus, l’acciuga europea che si pesca nei nostri mari.
Le acciughe si riproducono rapidamente, nel periodo compreso tra aprile e novembre, con un picco in luglio e agosto e occupano un posto intermedio nella catena alimentare: si nutrono infatti di piccoli crostacei e molluschi e sono preda a loro volta di pesci più grandi e mammiferi marini. Vivono in media due o tre anni ma possono arrivare fino ai cinque, tutti elementi questi che le rendono una risorsa preziosa per l’alimentazione umana.

Le acciughe sono chiamate anche alici, particolarmente nel meridione ed in Sicilia, termine che deriva dal latino hallex, una salsa che si otteneva appunto da questi pesci.
Se pensavate che le acciughe e le alici fossero due pesciolini diversi non è solo colpa vostra, in quanto molto spesso, con il termine acciughe si intendono i pesci interi conservati sotto sale, e con il termine alici gli stessi pesci sfilettati e messi sott’olio.
A volte, addirittura, i pescivendoli chiamano alici gli esemplari più piccoli e acciughe quelli più grandi, causando ulteriore confusione.

Ricordate, quindi, che le alici e le acciughe sono la stessa cosa!

Acciughe o sardine?

I problemi non finiscono qui, perché a causare ulteriore confusione entra in gioco un altro pesce azzurro molto simile all’alice: la sardina. Tra alici e sardine effettivamente c’è differenza in quanto appartengono a due famiglie diverse, cerchiamo di capire come riconoscere una dall’altra: le alici sono di dimensioni più piccole fino ad un massimo di 18 cm hanno squame con sfumature dorate, corpo affusolato e Mascella superiore più lunga di quella inferiore; le sardine, invece, si presentano con un corpo leggermente più tozzo e di dimensioni maggiori: fino a 25 cm, squame con sfumature rossicce e una mascella inferiore più lunga di quella superiore.
Il sapore delle alici e delle sardine è simile, e si prestano tutte e due a molti tipi di preparazione: marinate, fritte, come condimento per ottimi piatti di pasta e chi più ne ha più ne metta.

Alici: come conservarle

Alici sotto sale:

Sin dai tempi antichi entrano a far parte di molti piatti tipici della cucina piemontese. Di fatto, viene naturale chiedersi: “Perché, nonostante il Piemonte si trovi lontano dal mare, numerose ricette della nostra cucina, hanno le acciughe come ingrediente di base?”.
Su questo argomento sono state avanzate diverse ipotesi, fra queste, molto probabilmente, la più veritiera deriva dal commercio del sale. Si narra che, in tempi remoti, i commercianti di sale, di ritorno dalle saline ubicate in Provenza ed essendo oberati da alti dazi sul sale, usavano coprire l’ultima parte della botte, riempita di sale, con le acciughe sotto sale, in modo da sfuggire agli occhi dei gabellieri. Con il commercio dalle acciughe nasce la figura degli acciugai.
Originari principalmente dalla Val Maira, gli anciuè erano persone che nel periodo della brutta stagione, ovvero quando il lavoro agricolo e pastorizio poteva offrire solo più scarse risorse, si vedevano costretti a cercare fonti di guadagno altrove e si dedicavano al commercio delle acciughe sotto sale, per lo più acquistate in Liguria.
Dato che, ormai, sono in pochi a praticare questa professione, nel 2007 è nata in Val Maira la “Confraternita degli acciugai”, con lo scopo di promuovere, salvaguardare e valorizzare il mestiere di acciugaio.

Ricetta alici sotto sale:

Solitamente, le alici sotto sale sono conservate in contenitori di vetro detti “Arbanelle”, anche fino a due o tre anni. Ogni “Arbanella” piccola può contenere circa 1,5/2 kg di pesce e necessita di 1 kg di sale grosso.

  • Cospargere il fondo con due cucchiai da cucina di sale grosso e poi mettere i pesci in fila, disposti testa-coda, con due di traverso ai lati, per riempire lo spazio curvo che avanza ai lati della fila.
  • Ricominciare poi coprendo i pesci con altri due cucchiai di sale;

N.B Non è necessario coprire con un centimetro di sale, due strati di pesce possono anche toccarsi in certi punti, l’importante e non lasciare grossi vuoti.

  • Procedere in questo modo per 5-6-7 strati finché l’Arbarella non è piena fino a 2 cm dal bordo, distanza che andrà colmata con il sale fino all’orlo.
  • Coprire poi con una pietra piatta e rotonda, o un disco di vetro, o un piattino da caffè, per mantenere il tutto pressato.
  • A questo punto, si può riporre a “maturare” senza più intervenire.

Questo è solo uno dei modi in cui poter conservare le alici. Nel prossimo appuntamento, invece, vi parleremo di come conservare le alici sott’olio, e di un prodotto celebre: la colatura di alici di Cetara. Non mancate e, soprattutto… buon appetito!

a cura di Vincenzo Russolillo




Caponate e Panzanelle

Arriva il caldo e la nostra cucina si adegua al clima, dal nord al sud, la nostra cultura culinaria è piena di ricette dal tipico carattere estivo ed in pieno stile dieta mediterranea.
Si predilige il piatto unico, quello che si consuma anche in spiaggia e che negli ingredienti dà idea di freschezza e leggerezza. Come non pensare al nostro bel mar mediterraneo in questo periodo e alle tradizioni gastronomiche ispirate dai prodotti delle terre che su di esso si affacciano. E così che pomodori, cetrioli, olive, melenzane, peperoni, occupano uno spazio predominante nella bella stagione condite con il classico olio extravergine di oliva ed accompagnate dai pani di farine tipiche del territorio.

In questo scenario la “Caponata siciliana”, la “Caponata Napoletana” e la “Panzanella Toscana”, incarnano in pieno una cucina cosiddetta “povera” ma estremamente salutare che ben si sposa con il clima estivo e che sempre di più si diffonde in tutto il mondo.

La Caponata Siciliana

Popolarissima già nel XVIII secolo, viene preparata con ortaggi fritti, conditi con sugo di pomodoro, sedano, cipolla, olive e capperi, in una salsa agrodolce. La caponata rappresenta un classico esempio di come nel regno delle due Sicilie il popolo si sia sempre industriato per trovare delle alternative gustose per sopperire alla carenza di ingredienti costosi.
In questo caso, sembra che il termine derivi da “capone” nome con il quale in alcune zone della Sicilia viene chiamata la lampuga, un pesce dalla carne pregiata servito nelle tavole dell’aristocrazia e condito con la salsa agrodolce tipica della caponata. Il popolo, non potendo permettersi il costoso pesce, lo sostituì con le economiche melanzane. Ed è questa la ricetta giunta fino a noi. Appare plausibile, dunque, che la denominazione caponata derivi dal fatto che in origine, fra gli ingredienti principali, ci fosse il pesce capone. Ad supportare questa teoria ci è di conforto il gastronomo ottocentesco Ippolito Cavalcanti che riporta nel suo libro “La cucina teorico-pratica con corrispondente riposto”, pubblicato a Napoli nel 1839 la ricetta antica della caponata costituita da pane biscottato spugnato con aceto e condito con olio, sale, pepe e un po’ di zucchero, sormontate da lattuga e scarola tritate e marinate aceto, olio, sale e pepe, terminata con pesce capone, o sgombro, lessato e “calato” su cetrioli, olive e peperoni.

In ogni realtà siciliana la caponata risente di processi migratori e dominazione che ne arricchiscono ancora di più le varietà, si passa da quella palermitana dove agli ingredienti classici si aggiungono basilico, pinoli e mandorle tostate a quella agrigentina dove è presente anche il peperoncino per passare poi alla trapanese ed alla catanese dove sono presenti anche olive verdi.

La Caponata Napoletana

Anche se meno famosa della siciliana, esiste anche la caponata nella cucina napoletana. Si tratta di un piatto povero preparato con una base di friselle bagnate condite con pomodoro fresco, aglio, olio, origano e basilico, e, quando disponibili, anche acciughe, olive ed altri ingredienti.

La frisella è la base principale della caponata napoletana, chiamata anche fresella in napoletano, è un tarallo di grano duro cotto al forno, tagliato a metà in senso orizzontale e fatto biscottare nuovamente in forno. Essa presenta una faccia porosa e una compatta. Importante è distinguere tra la frisa e il pane: la frisa infatti non è un pane, in quanto è cotto due volte (bis-cotto).
La forma non è il risultato di una ricerca estetica o del caso, ma risponde a precise esigenze di trasporto e conservazione. Le friselle venivano infilate in una cordicella i cui terminali venivano annodati a formare una collana, che era facile appendere per un facile e comodo trasporto e conservazione all’asciutto. La frisella era infatti un pane da viaggio; da qui l’uso di bagnarla in acqua marina da parte dei pescatori, o, come accade a Castellamare, con l’acqua della Madonna  che, mantenendo per le proprie caratteristiche organolettiche inalterate nel tempo, si prestava ad essere utilizzata per lunghi viaggi. A Napoli si dice che la fresella  viene “spugnata” ovvero bagnata nell’acqua prima di essere condita, in modo tale da renderla più morbida. In genere si utilizza anche il brodo di polpo o il sughetto rilasciato dai fagioli. 

La Panzanella

Tipico piatto dell’Italia Centrale amata e consumata da molti secoli. Una versione simile alla classica Panzanella, il così detto “pan lavato”, sembra essere già presente nelle citazioni del Boccaccio nel XIV secolo. Si tratta di un piatto umile, nato dal recupero del pane raffermo, ma che delizia ancora oggi i nostri palati, soprattutto durante il periodo estivo.

Esistono varie versione sull’origine di questo piatto: alcuni ritengono che l’origine della Panzanella vada rintracciata nell’abitudine dei contadini a bagnare il pane secco, per poi condirlo con le verdure disponibili nell’orto. Anche per la Panzanella sembra che le origini siano a bordo delle barche da pesca e anche per quest’ultima sembra si utilizzasse l’acqua di mare per bagnare il pane raffermo e che poi si consumasse insieme a verdure e ortaggi.
Anche sull’origine del nome di questo piatto non si hanno fonti certe e, se da un lato pare che il nome derivi dai termini pane e zanella, ovvero zuppiera, dall’altro lato è forse il termine “panzana” (che originariamente significava “pappa”), ad aver dato vita al nome del piatto.
Le ricette della Panzanella sono moltissime e variano a seconda della regione d’origine e, in alcuni casi, anche da città a città. La base classica della ricetta prevedere l’uso di: pane raffermo, cipolla, basilico, cetriolo, pomodoro, olio d’oliva, aceto e sale e, in certi casi, anche tonno e uovo. Tuttavia, ciò che cambia più spesso in base alla regione di provenienza e il modo in cui viene utilizzato il pane raffermo.
Infatti, se in Toscana e nel Lazio il pane viene prima lasciato in ammollo e poi strizzato e spezzettato, in Umbria e nelle Marche si preferisce unire le fette di pane intere ai restanti ingredienti, senza sbriciolarle.

Insomma, resta il fatto che, comunque le vogliate preparare, la Panzanella e la Caponata  davvero sono dei piatti squisiti e semplice da realizzare. E non è un caso che, nonostante le loro umili origini, nel corso dei secoli le tradizioni che le accompagnano siano arrivate fino a noi.

Buon Sole e soprattutto, buon appetito!

a cura di Vincenzo Russolillo




Magie Cilentane: cosa vedere e mangiare lungo la costa del Cilento

“Guardò il mare e capì fino a che punto era solo, adesso. Ma vedeva i prismi nell’acqua scura profonda, e la lenza tesa in avanti e la strana ondulazione della bonaccia. Le nuvole ora si stavano formando sotto l’aliseo e guardando davanti a sé vide un branco di anatre selvatiche stagliarsi nel cielo sull’acqua, poi appannarsi, poi stagliarsi di nuovo, e capì che nessuno era mai solo sul mare.”  Ernest Hemingway, “Il vecchio e il mare”

È uno dei miei autori preferiti Hemingway, leggendo i suoi libri mi ritrovo spesso in luoghi a me cari, per averli visitati o forse per averli vissuti in altre vite: una cosa è certa però, le emozioni che provo leggendoli mi restano ben impresse nell’anima e, spesso, le ricerco nelle mie piccole e sporadiche fughe, in eterna ricerca di quell’energia vitale che solo un viaggio mi può dare.

Questa volta la scelta è caduta sul Cilento, terra magica adagiata su un mare cristallino, dove tratti di costa selvaggia si alternano a spiagge dorate e paesini arroccati tra le montagne. Un’immersione nella natura e nella storia, dove le leggende si mescolano alla realtà e incantano con le loro suggestioni.
Ed eccomi ad Acciaroli, sulle tracce di una leggenda, o forse qualcosa di più, che racconta di un ipotetico soggiorno di Hemingway ad Acciaroli, proprio nell’anno precedente la stesura del romanzo “Il Vecchio e il Mare”, lasciando ipotizzare una possibile ambientazione della sua opera proprio in questi luoghi.
È proprio tra le antiche vie del borgo marino di Acciaroli, lungo i pendii rocciosi della sua scogliera, in mezzo alle barche e alle reti dei pescatori, di fronte alla Torre Normanna, che si percepisce la magia e la poesia che trasuda maestosa nelle pagine del famoso romanzo: non Cuba quindi fu musa del Premio Nobel, ma la nostra bella e magica terra, la Campania.

Cilento: cosa vedere in 3 giorni

Il Cilento non finisce ad Acciaroli naturalmente, ma racchiude molti altri borghi adagiati su di un mare incantevole, una natura selvaggia ricca di colori e profumi che difficilmente si ritrovano altrove, proprio come Castellabate, tipico paesello delle fiabe, delizioso borgo medievale arroccato sulla cima di una collina: tra i borghi più belli d’Italia, con panorami a picco sul mare, suggestive scalinate e antichi palazzi di nobili.

Immancabile una visita a Punta Licosa: una delle spiagge più belle d’Italia, con la sua sabbia bianca e l’acqua cristallina, una natura rigogliosa e selvaggia. Si narra che a questo luogo magico il nome fu dato in onore della sirena Leucosia, che morì per amore, lanciandosi da una rupe, trasformandosi in uno scoglio una volta toccata l’acqua del mare.

Proseguiamo alla volta di Palinuro: di cui si racconta fosse il nocchiere di Enea che, caduto in questo mare, lasciò il suo nome a questo antico villaggio di pescatori. La costa rocciosa delle sue sponde è un fiorire di grotte dalle luci ed effetti ottici di mille colori.
Un bagno nelle acque blu della Grotta Azzurra è di dovere ed io subito ne approfitto per 10 minuti di puro relax magico, nuotando in questo mare più blu’ del cielo, la mia fantasia prende il volo ed immagino di incontrare una di quelle sirene di cui tanto si parla da queste parti, persa dalla sua voce e dalle storie fantastiche che mi racconta, mi allontano sempre più dalla realtà.

La fantasia galoppa in questi luoghi, troppe sono le bellezze che attirano i nostri occhi, e tanta è la storia che incontriamo lungo le stradine di questi antichi borghi…

Una delle location più suggestive di questa zona, dove sono concentrati secoli e secoli di storia è sicuramente Paestum: antica città circondata da chilometri di mura, uno dei più importanti siti storici del mondo. Attraverso le sue rovine, resti della dominazione greca e romana, ti senti parte di un qualcosa di veramente unico, per tutti questi motivi, appena posso scappo in questi luoghi, fortunatamente non lontani da dove vivo.

Qui sono sempre sicura di trovare ciò di cui ho bisogno: natura, mare e magia. Ogni volta che ci ritorno scopro sempre cose nuove, storie nuove e luoghi ancora incontaminati, selvaggi proprio come piacciono a me.

Cosa mangiare lungo la costa cilentana

Il Cilento non è solo questo ma molto altro ancora: qui il cibo è succulento, cucinato con passione e tradizione, grazie a ricette create rigorosamente in base alla celebre Dieta Mediterranea, di cui il Cilento è la patria ufficiale, che prevede l’utilizzo esclusivo di prodotti locali DOP, per creare piatti dove i colori dominanti sono quelli della bandiera italiana: il rosso del pomodoro, il bianco della mozzarella di bufala ed il verde del basilico.

Un esempio di succulenza cilentana restano sempre le famose “Melenzane ‘mbuttunate”, di cui vado ghiotta. A voi amici di Dispensa Italiana lascio la ricetta originale della signora Carmela, incontrata proprio durante la mia ultima visita ad Acciaroli. Di fronte a ricette vere come questa non esiste “prova costume” che tenga, qui il fritto non è da condannare ma solo da venerare:

 

Ingredienti

1 kg di melanzane
4 uova
300 g di formaggio pecorino del Cilento grattugiato
200 g di pane raffermo
1 litro di passata di pomodoro
capperi salati
olive nere del Cilento a pezzetti o snocciolate
olio EVO del Cilento
1 spicchio d’aglio
prezzemolo
basilico
sale
pepe

Come preparare ottime melanzane ‘mbuttunate

Preparare le melanzane, tagliandole sottili in lunghezza, cospargendole di sale grosso per evitare che rilascino liquidi durante la cottura. Lasciare riposare per circa un’ora prima di risciacquarle e asciugarle.
In un contenitore versate uova e cacioricotta cilentano grattugiato, mescolare il composto con una forchetta fino a quando non si amalgama.
Mettere il pane raffermo in acqua, strizzarlo e aggiungere al ripieno insieme a capperi, olive, prezzemolo e pepe, mescolando per bene il tutto.
Farcire le melanzane, disponendo l’impasto tra due fette e chiudendole a mo’ di tramezzino.
Calare tutte le melanzane ripiene in una padella e friggere a fiamma bassa in olio EVO abbondante e ben caldo, fino a quando non diventano dorate. Una volta cotte, disporre le melanzane fritte con una schiumarola su carta assorbente, per eliminare l’olio in eccesso.
In una padella, soffriggere nell’olio uno spicchio d’aglio fino a quando non diventa dorato. Togliere l’aglio e versare la salsa di pomodoro, aggiungendo un pizzico di sale e acqua all’occorrenza. Quando la salsa sarà quasi cotta, aggiungere le melanzane e cospargerle interamente di pomodoro per farle insaporire.
Aggiungere qualche foglia di basilico e servire calde. 

Buon appetito e… alla prossima avventura!

a cura di Vincenzo Russolillo




La cucina contadina: mangiare bene spendendo poco

Ritornare alle origini e riscoprire i gusti del passato, di una cucina genuina e semplice, quella dei contadini italiani, coloro che hanno contribuito più di tutti, con il loro sapere, alla “scrittura” della nostra amata Dieta Mediterranea.
Parliamo di una cucina autentica, fatta di ingredienti “poveri” che affonda le radici in quelle antiche e semplici ricette dal sapore intenso che sono arrivate fino a noi e che oggi sono tutelate dall’Unesco come patrimonio immateriale dell’umanità.

Non sono molti i libri specializzati nella buona cucina contadina di una volta, ed è un peccato, perché la tradizione gastronomica rurale italiana di ogni regione d’Italia è molto ricca e meriterebbe di essere opportunamente documentata. Nel contempo, notevole è lo sforzo che stanno facendo oggi ristoratori, agriturismi  o associazioni come Slow-Food, che  sono impegnati nel recupero e nella valorizzazione della tradizione, e che ripropongono piatti di origine contadina come, ad esempio, il nostro amico Berardino Lombardo che nel suo menù propone l’uovo a sciusciello, il pane cotto con i broccoli, la minestra di cicorie, i peperoni imbottiti, polpette, zuppa di zucchine, frittate e che impiega tanta energia per il recupero e la valorizzazione del suo territorio dell’alto casertano. Nonostante questo, ancora tanto si può fare per riportare il nostro patrimonio gastronomico agli onori che merita, ancora tanti usi e tante consuetudini campagnole possono essere scritte e rese disponibili prima che si perdano nel tempo.

Da questa consapevolezza si può partire per comprendere che quella che definiamo cucina “povera”, che in realtà è una delle più ricche al mondo, sia in termini di ingredienti (biodiversità) che di ricette. La cucina contadina può essere definita una vera e propria arte, con un ingegno tutto italiano e con un’immensa fantasia, spesso alimentata da donne che hanno fatto del bisogno e delle carenze economiche una vera e propria risorsa.
Per descrivere questa cucina bisogna partire dal contadino, che ad un certo punto della sua storia diventa stanziale e che vive per lo più di auto-consumo, facendo raramente ricorso al mercato. In questo scenario, l’unica cosa che era tenuto a rispettare per la propria sussistenza alimentare era il territorio, con tutto quello che era in grado di offrire, egli doveva solo trovare il modo di conservare ed accumulare scorte per periodi di carestia o per l’inverno, quando i prodotti della terra scarseggiavano. Si iniziano così a sperimentare le prime tecniche di conservazioni dei prodotti con l’ausilio dell’olio, del sale e dell’aceto e ad utilizzare le farine per la produzione del pane che gli garantisce per tutto l’anno il sostentamento necessario.

Per intere generazioni rurali il pane, il formaggio e poco altro hanno costituito il pasto regolare, tanto più ricco quanto più si poteva accompagnare con una cipolla, qualche oliva e un buon bicchiere di vino. Ed è proprio dal pane, elemento povero e ricco allo stesso tempo, che emerge il tocco di qualità tipico della cucina contadina. È il pane di ieri, dell’altro ieri e dell’altro ieri ancora che sarà buono anche domani: basterà arricchirlo, accomodarlo di gusto, riutilizzarlo in ricette nuove e gustose.
Proprio dal concetto “il pane di ieri è buono anche domani” nasce nelle comunità contadine il concetto del riciclo degli avanzi, mai concepiti realmente come scarti di cui disfarsi ma, al contrario, considerati un bene, una sorta di piccolo risparmio che, se custodito, consente un utilizzo successivo. Basti pensare che nelle regole scritte di alcuni monasteri del sud Italia c’era quella di non buttare le briciole del pane che alla fine del pasto rimanevano sulla tavola, e di conservarle con cura in un barattolo di vetro pulito, così da poterle riutilizzare al sabato per farne torte o altre preparazioni per i giorni di festa.

Tutta la cucina contadina è quindi incentrata sull’utilizzo di risorse scarse, di ricerca per valorizzarle, di trasformazione delle stesse per renderle disponibili nel tempo. Dai contadini nasce il concetto di conserva, sono loro che iniziano a produrre composte o marmellate, e a loro si deve la più grande abilità nello sfruttare tutto ciò che la natura è in grado di offrire. Anche un animale macellato si rispetta fino in fondo, niente viene buttato, il cosiddetto “quinto quarto” dell’animale è quello che resta ai contadini, ai quali arrivavano soltanto gli scarti delle carni, quelle che restavano dopo aver eliminato i due quarti anteriori e posteriori degli animali destinati alle classi più agiate.

I contadini, però, trovarono il modo di valorizzare quelle parti, le resero nobili con l’utilizzo di spezie o immergendole in sughi o brodi: la trippa, i rognoni , il cuore, il fegato, la milza, il pancreas, il cervello, la lingua, i polmoni, la coratella. venivano utilizzate per zuppe o cotte in umido e rappresentavano per loro l’unico vero apporto di proteine animali. Numerose sono le ricette che sono arrivate fino a noi e qui è d’obbligo ricordare quello che rappresenta la “coda alla vaccinara” oggi per i romani, il “soffritto” per i napoletani, la “lingua cotta” in Friuli o il famoso “pani câ meusa” (milza) a Palermo, e come questi scarti di animali siano oggi presenti in menù di chef stellati di tutto il mondo.

Per concludere, è alla tradizione contadina ed al concetto di riuso ed autosufficienza che ci dovremmo avvicinare per ritrovare il nostro modo di condividere il cibo, a quel “focolare” che scalda il calderone di rame cuocendo lentamente patate, uova, zuppe di legumi, minestre di verdure selvatiche e granaglie. Oggi questo modello è l’unico in grado di garantirci un futuro “biodiverso e rispettoso dei ritmi naturali della natura, delle sue cadenze e dei sui momenti di necessario riposo.

Buon Appetito!

a cura di Vincenzo Russolillo




Riso

Oggi non lo sono più, ma per secoli i napoletani sono stati grandi consumatori di riso, di cui la città ne è stata a lungo primo produttore europeo. Il sartù, il risotto alla pescatora, le palle di riso, cucinate con i piselli, con i verzi o “brusciato” secondo un’antica ricetta del Cavalcanti, e ancora impastato con mollica di pane, come ripieno dei peperoni e dei pomodori o delle zucchine, e anche la crostata di riso. A Napoli, il riso è impiegato in cucina da almeno cinque secoli.

Già noto agli antichi romani che abitavano Pompei ed Ercolano, fino agli inizi del 1500 era usato prevalentemente lesso come curativo per le malattie intestinali o gastriche, secondo i dettami della Scuola Medica Salernitana, che ne consigliava l’uso così come consigliava di berne l’acqua in cui era stato lessato: uno di quegli “antichi rimedi” suggeriti dalle nonne, che si è tramandato per generazioni.
Il successo di questo preziosissimo cereale è dovuto ai monaci dell’abbazia di Montecassino, che misero a punto la varietà oggi conosciuta come “Balilla”, proveniente dalle coltivazioni estensive del napoletano.

Pochi sanno che il risotto con lo zafferano, poi divenuto “alla milanese”, è nato a Napoli, dove era consueto l’uso delle spezie. Se la preparazione più diffusa e antica è senza dubbio riso e verzi, due prodotti della terra che abbondavano nelle campagne attorno alla città, oggi a Napoli il riso viene impiegato principalmente per preparare il famoso sartù o per il risotto “alla pescatora”. A trasformare il riso da cibo “povero” consumato prevalentemente dai poveri, ci hanno pensato i monzù (il nome con cui i napoletani chiamavano i monsieur), i cuochi francesi chiamati a Napoli nella seconda metà del 1700 dalla regina Maria Carolina, che tanto merito ebbe nel sostenere e far sviluppare la cucina e la gastronomia napoletana.
I monzù, alla continua ricerca di ricette nuove per sorprendere i reali e i loro nobili ospiti, inventarono il sartù per rendere presentabile il riso alle tavole regali utilizzando i principali ingredienti della cucina napoletana: la salsa di pomodoro, avanzi di carne di manzo e maiale, tra cui anche interiora e fegatini, piselli e burro.

Appuntamento alle prossime pietanze…

a cura di Vincenzo Russolillo




Come riconoscere e dove cercare il prugnolo

La stagione dei funghi vive il suo momento migliore e, per l’occasione, il micologo di Dispensa Italiana, Raffaele Capano, ci parla della Calocybe gambosa, meglio conosciuta con altri appellativi come prugnolo, fungo della saetta, fungo di San Giorgio, spinarolo, virno.

Non proprio tipico dell’autunno, anche se reperibile in questo periodo, il fungo di San Giorgio si presenta con caratteristiche ben precise, vediamole insieme

Prugnoli: come riconoscerli

CAPPELLO: sodo e carnoso, inizialmente emisferico/convesso, poi disteso e pianeggiante raramente depresso, dal color bianco crema al nocciola chiaro. Cuticola asciutta e liscia col tempo secco prolungato.

LAMELLE: molto fitte, leggermente decorrenti con lo stesso colore del cappello.

GAMBO: sodo e robusto, cilindrico, panciuto o clavato, ma anche esile e poco consistente, liscio e con colore del cappello.

CARNE: bianca, abbastanza consistente, con odore persistente di farina fresca che si percepisce anche nel fungo cucinato.

Dove e quando trovare il prugnolo

HABITAT: cresce in primavera, raramente anche in autunno, nei pascoli e nelle radure dei boschi in forma isolata o gregaria; in quest’ultimo caso, i gruppi di esemplari possono anche disporsi a formare i classici cerchi delle streghe, oppure particolari forme con andamento a zig zag.

COMMESTIBILITÀ: ottimo e molto ricercato, può essere consumato anche allo stato crudo.

CURIOSITÀ: tipicamente primaverile è soprannominato anche “Fungo di San Giorgio” in quanto la sua crescita coincide con la festività del Santo (23 Aprile).

Fungo di San Giorgio in cucina

Fettuccine con erbette selvatiche e prugnoli

Pulire molto accuratamente c.a. 350 gr. di prugnoli (Calocybe gambosa) e tagliuzzarli finemente. Mondare e lessare circa 350 gr di erbetta selvatica, nella fattispecie “Silene vulgaris”, saltarla appena in padella con un fondo di olio e aglio.
In una casseruola larga e a bordo basso, a parte, soffriggere uno spicchio d’aglio in quattro cucchiai di olio di oliva, fino a farlo dorare. Aggiungere i funghi, qualche pomodorino fresco, sale e pepe quanto basta e cuocere per circa 10-15 minuti.
Nel frattempo, far bollire in abbondante acqua salata 400 gr. di fettuccine all’uovo, scolare al dente e versare nella pentola con i funghi.
A fuoco medio, mantecare molto bene, aggiungendo una manciata di parmigiano, grattugiato al momento, un cucchiaio di prezzemolo tritato fresco e l’erbetta selvatica.
Servire il tutto subito e caldissimo. Per accompagnare, l’ideale è un vino rosso leggero.

Buon appetito!

a cura di Vincenzo Russolillo




Il pomodoro San Marzano

Una delle varietà più popolari campane del pomodoro è il “San Marzano”. Comparso nei primi anni del XIX secolo, sembra derivare da un’ibridazione naturale tra le varietà Fiaschella e Marzanella nel territorio compreso tra Sarno e Nocera Inferiore, o addirittura da una mutazione spontanea apparsa in una popolazione di pomodoro locale denominata Lampadina.
Assunse grande importanza dal punto di vista gastronomico verso la fine ’800, quando sorsero le prime industrie di trasformazione ad opera di Francesco Cirio. Da allora, e fino agli anni ’80, il “pelato” è stato prodotto quasi esclusivamente con il pomodoro proveniente dalla varietà San Marzano, come narra Ferruccio Zago fin dagli anni ’20 nelle sue “Nozioni di Orticoltura” dove scrive: “L’industria dei pelati è vanto della Campania.  La varietà di pomodoro impiegato è conosciuta col nome di S. Marzano, chiamata anche “lunga”, dalla forma della bacca, estesamente coltivata nell’ Agro sarnese nocerino”. È stato per quasi un secolo “l’oro rosso” delle pianure fertili nell’agro nocerino- sarnese e nell’agro acerrano-nolano, tutto il pelato che veniva prodotto dalle industrie campane era realizzato con le diverse popolazioni di pomodoro San Marzano.

Perché diverse popolazioni di San Marzano?

La risposta ci è data dal modello di agricoltura che era in uso in quel periodo: un’agricoltura fatta di sostanza organica (il concime), fatta di pochi trattamenti alle piante e soprattutto grazie alla presenza dell’agricoltore custode che ogni anno, selezionava i frutti o le piante per estrarre il seme che sarebbe servito per la campagna successiva. Questo lavoro di selezione ha fatto sì che oggi (lavoro iniziato nel 1996 finanziato dall’Assessorato all’Agricoltura della Regione Campania) abbiamo potuto reperire 33 popolazioni diverse di San Marzano appartenenti alle varietà San Marzano 2 e 4: queste popolazioni fanno parte della Banca Regionale del germoplasma orticolo e le sementi conservate  sono a disposizione degli agricoltori campani.

Perché il pomodoro San Marzano è scomparso alla fine anni degli ’80?

A fine anno ’80 iniziarono a diffondersi anche in Campania i primi pomodori lunghi da pelato “americani”: si trattava di ibridi F1 che erano molto differenti dal pomodoro San Marzano tranne per la forma allungata: le piante erano determinate e quindi non avevano bisogno di tutori (pali di legno); i frutti erano più consistenti; la produzione ad ettaro più elevata e al massimo si facevano due raccolte.
In questo scenario, il Pomodoro San Marzano presentava scarsa competitività in termini di costi di coltivazione, una obsolescenza degli ecotipi di San Marzano (variabilità intra ed extra ecotipo), ovvero mentre i frutti degli ibridi erano tutti più o meno uguali (stessa forma e pezzatura) quelli delle diverse popolazioni di San Marzano erano molto diversi tra di loro e all’interno dello stesso ecotipo. L’introduzione della chimica in tutte le diverse fasi di coltivazione (dai concimi agli antiparassitari) e l’assenza di rotazioni  (dovuta alle piccole dimensioni e struttura delle aziende produttrici di San Marzano) determinarono condizioni di “stanchezza del terreno” con conseguente diffusione di alcune malattie  tra le quali le virosi e “la radice suberosa”.

In sintesi, la concomitanza di tutte queste cause ha determinato, più che la scomparsa, la coltivazione del San Marzano esclusivamente negli orti familiari delle aziende agricole dell’area DOP.

Il rilancio del pomodoro San Marzano

Agli inizi degli anni ’90, l’allora SME Ricerche oggi ARCA 2010,  fu promotore insieme con altri Enti pubblici e Regione Campania di diverse iniziative per la valorizzazione  rilancio del San Mazano.
Arca 2010 (ex Sme Ricerche) attivò un programma di miglioramento genetico sul pomodoro San Marzano finalizzato a raggiungere una serie di obiettivi, quali:

  • aumento delle rese produttive
  • introduzione di resistenze a patogeni
  • aumento della consistenza dei frutti
  • maggiore uniformità dei frutti sulla pianta
  • mantenimento caratteristiche organolettiche e qualitative originarie del San Marzano
  • riduzione dei difetti di collettatura del frutto.

Parallelamente, partì  un progetto per l’ottimizzazione della produzione che si realizzò attraverso:

  • l’ottimizzazione delle tecniche colturali;
  • l’introduzione di agrotecniche innovative (es. tunnel antiafidico);
  • prove di coltivazione in aziende agricole delle nuove cultivar  provenienti dall’attività di miglioramento genetico; 
  • prove di trasformazione delle nuove varietà;
  • valutazione delle caratteristiche organolettiche dei prodotti ottenuti attraverso analisi sensoriali.

Il risultato di tutte queste attività fu l’iscrizione al registro varietale di diverse cultivar di pomodoro afferenti alla tipologia San Marzano e la richiesta autorizzazione al MIPAF per ammissione della nuova varietà al disciplinare di produzione del pomodoro San Marzano dell’agro sarnese nocerino D.O.P.
Attualmente  Le varietà/ecotipi ammessi alla DOP sono:

  • Kiros  (varietà migliorata)
  • San Marzano 2
  • Popolazioni/accessioni di San Marzano 2

Altro passo fondamentale per il rilancio del San Marzano è stato il riconoscimento della DOP nel luglio 1996 da parte dell’U.E.

Le popolazioni/accessioni: nel 1996 è stata costituita la prima banca del germoplasma grazie ad un lavoro di raccolta, moltiplicazione, conservazione di 33 popolazioni/accessioni ascrivibili al pomodoro San Marzano varietà 2 e 4. Questo lavoro fu finanziato dall’Assessorato all’Agricoltura della Regione Campania e il lavoro di moltiplicazione e conservazione è proseguito negli anni successivi attraverso diversi progetti finanziati tra cui l’ultimo della Regione Campania con fondi PSR 2007-2013 misura 214 f2.
Attualmente Kiros è la varietà di riferimento per la produzione del San Marzano DOP, in pratica rappresenta più  il 90% di tutta la produzione DOP, ed è per tale ragione che Slow Food Campania, al fine di scongiurare la scomparsa dei vecchi ecotipi\popolazioni di pomodoro San Marzano, ha realizzato un Presidìo denominato “Antichi pomodori di Napoli“.  Il Presidìo vuole valorizzare la coltivazione di questi pomodori tradizionalmente campani ravviando la produzione di questi ecotipi/popolazioni antichi: oggi i coltivatori aderenti producono oltre ai pomodori freschi, i pelati, la passata e altre conserve tradizionali.

a cura di Vincenzo Russolillo




Brioche come in pasticceria

Al mattino mi piace svegliarmi con l’odore delle brioche… e con quei sentori di vaniglia, limone o Rhum. Quelle fatte in casa, poi, sono un’ottima soluzione per una colazione o una merenda sana e gustosa: possono essere consumate vuote, come piacciono a molti bambini, o farcite con confetture e marmellate e, nel periodo estivo, con del gelato o alla siciliana con la granita.

Come fare brioche morbide

Tutti pensano che prepararle sia difficile e che richieda molto tempo. Non è vero! La ricetta che vi propongo nasce da diversi tentativi e sperimentazioni, proprio con l’obiettivo di crearne una semplice da preparare che fosse alla portata di tutti.

>>>Ingredienti per 20 brioche c.a. (6-8 trecce e 10 pagnotte)

300 gr di Farina 00
200 gr di Farina Manitoba
100 gr di latte intero
130 gr di zucchero
180 gr di burro
3 uova
1 panetto di lievito di birra
3 cucchiaini di miele di acacia (va bene anche un’altra varietà)
1 baccello di vaniglia o 1 bustina di vanillina 
1 cucchiaio di Rhum
Scorza grattugiata di 1 limone preferibilmente non trattato
2 pizzichi di sale

Per la finitura
latte q.b.
1 tuorlo d’uovo
Zucchero in granella o Zucchero a velo

Difficoltà: media
Tempo di preparazione: 1 ora + 3 ore per far riposare l’impasto
Tempo di cottura: 15’
Temperatura forno: 180°

Procedimento
La preparazione delle brioche comincia togliendo dal frigo burro e latte, almeno 30 minuti prima di lavorarli. Nel frattempo, miscelate e setacciate i due tipi di farina e poi sul un tavolo, o sul piano di lavoro, disporre la farina “a fontana”. In una caraffa graduata, o in un semplice contenitore, versate il latte e scioglieteci il lievito di birra. Versate il composto così ottenuto lentamente al centro della fontana.
Aggiungete lo zucchero, le uova, gli aromi e iniziare ad impastare. Mentre impastate aggiungete gradualmente il burro morbido e, alla fine, il sale. L’impasto, se lavorato bene, risulterà elastico, morbido e liscio. Così ottenuto sistematelo in una ciotola infarinata e copritelo con pellicola aderente fin quando non sarà raddoppiato di volume.

A questo punto è necessario lavorarlo ancora un po’, sempre con le mani, e sistemarlo nella pianeta, coprendolo con la pellicola trasparente, per poi lasciarlo riposare in frigo per circa 3 h (il riposo in frigorifero serve per far assestare i lieviti e incorporare meglio gli aromi).
A questo punto, siamo pronti per preparare le brioche. Potete scegliere di fare la classica cupoletta con “il tuppo”, delle piccole palline, o anche delle trecce separando l’impasto in piccoli filoncini e intrecciandoli fra di loro. Disponete le brioche crude su una teglia da forno e lasciatele crescere. Quando vedete che sono aumentate del giusto volume spennellatele con una miscela di tuorlo d’uovo e latte, aggiungendo come finitura, se piace, della granella di zucchero.
Per la cottura richiedono 15 minuti in forno a 180° e sono pronte per essere gustate! 

a cura di Vincenzo Russolillo




Dispensa Italiana per Ennio Morricone all’Arena di Verona

Dopo un’estate vissuta all’insegna della buona musica al Lucca Summer Festival 2017, continua la collaborazione tra Dispensa Italiana, divisione food di Gruppo Eventi, e la D’Alessandro & Galli, questa volta per un appuntamento davvero speciale.
È tutto pronto, infatti, per il grande evento di stasera e domani, che vedrà sul palco dell’Arena di Verona il Maestro Ennio Morricone, nelle sue due ultime esibizioni all’anfiteatro scaligero. In questa doppia serata, evento speciale della tournée mondiale “The 60 Years of Music World Tour” con cui Morricone festeggia il sessantesimo anniversario come compositore e direttore d’orchestra, andata sold out già da tempo, Dispensa Italiana avrà un ruolo di prezioso supporto all’intera organizzazione.

Fervono i preparativi ed è già cominciato il conto alla rovescia delle poche ore che mancano a questa sera ma Dispensa Italiana non si ferma qui: per chiudere in bellezza un’estate di successi l’appuntamento è il 23 settembre sempre a Lucca, sempre al fianco della D’Alessandro & Galli, per l’unica data italiana del “No Filter Tour” dei Rolling Stones. L’attesissimo concerto della band britannica icona del rock, infatti, chiuderà alla grande quest’emozionante edizione del Lucca Summer Festival. 

a cura di Vincenzo Russolillo




Per “Parliamo di dolcezza”, la presentazione del Pandibufala di Sal De Riso

Salvatore De Riso, in arte Sal De Riso, è il celebre Maestro Pasticciere originario di Minori, piccola perla della Costiera Amalfitana. Presidente del Consorzio di Tutela del Limone di Amalfi, nel 2015, De Riso vince il premio “Re Panettone”, affermandosi ancora una volta sulla ribalta nazionale, che già lo conosceva per le numerose presenze nel programma TV della Clerici, “La prova del cuoco”.

Nato e cresciuto in una terra in cui i limoni sono i protagonisti indiscussi della scena, Sal De Riso non ha saputo resistergli e per dar vita a prodotti unici, ne ha combinato sapori e profumi con ingredienti dei territori a lui più prossimi, come il burro di bufala, ad esempio.

Nasce così il Pandibufala, presentato oggi a La Casa di Miss Italia, grazie alla collaborazione con Pianeta Bufala, evento che mira a fare rete intorno al mondo dei prodotti bufalini, in cui De Riso è stato più volte protagonista. Rispetto alla presentazione di oggi, De Riso afferma: “Abbiamo realizzato tre tipologie di prodotto diversi: uno con il limone di Amalfi IGP, a base di crema al limoncello, il “Fior d’arancio”, farcito con crema al cioccolato e arance candite e il “Cilentano”, con i fichi bianchi del Cilento, il miele e, appunto, il burro di bufala. A “La Casa di Miss Italia”, però, ho scelto di portare i profumi più tipici della Costa d’Amalfi, facendo assaggiare agli ospiti il panettone al limoncello”.

Maestro nel suo genere, autore di libri, Sal De Riso è stato allievo dei migliori pasticceri e nel 1994 ha frequentato l’accademia dei Maestri Pasticceri Italiani. Di lui, Igino Massari, il fondatore, ha detto: «Per De Riso lavorare è un atto di competenza ed intelligenza, fonte di perfezione e di gioia. Diventa così un simbolo, la guida di chi, come ha fatto lui, ha la forza di ubbidire alla propria legge interiore quando sa di essere nel giusto».

a cura di Vincenzo Russolillo