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Riso

Oggi non lo sono più, ma per secoli i napoletani sono stati grandi consumatori di riso, di cui la città ne è stata a lungo primo produttore europeo. Il sartù, il risotto alla pescatora, le palle di riso, cucinate con i piselli, con i verzi o “brusciato” secondo un’antica ricetta del Cavalcanti, e ancora impastato con mollica di pane, come ripieno dei peperoni e dei pomodori o delle zucchine, e anche la crostata di riso. A Napoli, il riso è impiegato in cucina da almeno cinque secoli.

Già noto agli antichi romani che abitavano Pompei ed Ercolano, fino agli inizi del 1500 era usato prevalentemente lesso come curativo per le malattie intestinali o gastriche, secondo i dettami della Scuola Medica Salernitana, che ne consigliava l’uso così come consigliava di berne l’acqua in cui era stato lessato: uno di quegli “antichi rimedi” suggeriti dalle nonne, che si è tramandato per generazioni.
Il successo di questo preziosissimo cereale è dovuto ai monaci dell’abbazia di Montecassino, che misero a punto la varietà oggi conosciuta come “Balilla”, proveniente dalle coltivazioni estensive del napoletano.

Pochi sanno che il risotto con lo zafferano, poi divenuto “alla milanese”, è nato a Napoli, dove era consueto l’uso delle spezie. Se la preparazione più diffusa e antica è senza dubbio riso e verzi, due prodotti della terra che abbondavano nelle campagne attorno alla città, oggi a Napoli il riso viene impiegato principalmente per preparare il famoso sartù o per il risotto “alla pescatora”. A trasformare il riso da cibo “povero” consumato prevalentemente dai poveri, ci hanno pensato i monzù (il nome con cui i napoletani chiamavano i monsieur), i cuochi francesi chiamati a Napoli nella seconda metà del 1700 dalla regina Maria Carolina, che tanto merito ebbe nel sostenere e far sviluppare la cucina e la gastronomia napoletana.
I monzù, alla continua ricerca di ricette nuove per sorprendere i reali e i loro nobili ospiti, inventarono il sartù per rendere presentabile il riso alle tavole regali utilizzando i principali ingredienti della cucina napoletana: la salsa di pomodoro, avanzi di carne di manzo e maiale, tra cui anche interiora e fegatini, piselli e burro.

Appuntamento alle prossime pietanze…

a cura di Vincenzo Russolillo




Aglio e Uoglio (Aglio e olio)

Spaghetti, vermicelli o linguine? Napoli e i napoletani si sono sempre divisi su quale pasta cucinare con aglio, olio e peperoncino. Quest’ultimo, in verità, è stato aggiunto in un secondo momento, ma ha reso la ricetta internazionale. Lo spaghetto condito con aglio, olio e peperoncino, infatti, è, assieme alla pasta al pomodoro, sinonimo di cucina napoletana nel mondo.
Rivisitazione “povera” degli spaghetti alle vongole o ai frutti di mare, Jeanne Caròla Francesconi, la vestale della cucina napoletana, autrice del libro più famoso e venduto, non ha dubbi che bisogna usare le linguine. Non poteva essere diversamente. Le prime forme di pasta, da cui poi sono nate tutte le altre, infatti, erano una sorta di tagliatelle, praticamente delle lagane più lunghe. Per i puristi, gli storici e i gastronomi, invece, è tassativo utilizzare i vermicelli, argomentando la tesi con l’assunto storico che un tempo questa ricetta era denominata “vermicelli alla Borbonica”.

Gli spaghetti, con cui il piatto è preparato oggi nella maggior parte delle case e dei ristoranti, sono un’invenzione recente, a dispetto di chi sostiene li abbiano inventati addirittura i cinesi e siano arrivati in Italia portati da Marco Polo nel 1295. Il termine spaghetti, infatti, compare per la prima volta nel testo “Li maccheroni di Napoli” del poeta e commediografo napoletano Antonio Viviani, pubblicato nel 1824.
Ma se c’è un alone di mistero sull’origine della ricetta e sul tipo di pasta da impiegare, tutti sono d’accordo che spaghetti, vermicelli o linguine devono essere “sciuliarielli” (resi scivolosi dall’olio). La storica ricetta che si tramanda da generazioni vuole che, oltre all’olio abbondante, sia d’obbligo aggiungere un po’ d’acqua di cottura della pasta.
Oggi non c’è dubbio che l’olio deve essere rigorosamente extravergine, ma per secoli è stato olio d’oliva, perché l’extravergine risale al secondo dopoguerra. Una trovata di marketing dell’allora patron dell’olio, Dante Angelo Costa, per differenziare il suo olio dai concorrenti.

E l’aglio?

Un tempo, come oggi, deve essere quello della valle dell’Ufita, nell’avellinese. In ogni casa napoletana che si rispetti non manca mai una treccia d’aglio, la famosa “nzerta”.
Alla fine del XIX secolo gli spaghetti aglio e olio e al pomodoro erano così diffusi a Napoli che, su richiesta di Ferdinando II di Borbone, il ciambellano di corte Gennaro Spadaccini inventò la forchetta a tre rebbi per consentire di avvolgerli e poterli mangiare non più con le mani, come era d’uso, ma con le posate.

Aglio e uoglio è un modo di mangiare, ancora prima che di condire la pasta ed in particolare gli spaghetti.

Alle prossime pietanze…

a cura di Vincenzo Russolillo




Pizza

Fritta o cu ‘a pummarola, ‘a pizza è più di una pietanza: è un modo di essere, di mangiare, di vivere.
Più del tè, del caffè o del cioccolato, che sono stati i primi veri alimenti globali, è stata il primo prodotto internazionale, si potrebbe azzardare che la pizza ha dato il via alla globalizzazione.
Più del Vesuvio o della canzone napoletana, pure famosa in tutto il mondo, e forse anche più della pasta, è il vero simbolo della Città di Napoli. La pizza esiste da sempre, ma è quella fatta a Napoli che ha conquistato tutto il mondo divenendo il primo piatto universale.

I napoletani si dividono tra quelli che la preferiscono fritta, “il male buono”, come la chiama Fabrizio Mangoni, l’architetto e urbanista gastronomo autore di uno dei più bei libri sulla pasticceria napoletana: “Dolcipersone” (Guida, 1966) e coloro che sono fedelissimi alla pizza al forno: marinara, margherita o calzone (il ripieno). Ancora oggi, camminando per le strade di Napoli, è possibile imbattersi nelle friggitore o nei friggitori, i precursori dei moderni pizzaioli, che preparavano ottime pizze fritte nei loro stufaruoli di rame. Non tutti potevano permettersi una pizza fritta, e così si accontentavano delle pizzelle, un piccolo disco di pasta di pizza fritta, condita solo con un pizzico di sale, con salsa di pomodoro e origano o un tocchetto di fiordilatte. È quella oggi conosciuta come “montanara” e che, in molte case napoletane, si prepara sovente anche come sfizio.

Fino a poco più di mezzo secolo fa, ben oltre gli anni ‘60, era consuetudine mangiare la pizza per strada, come rigorosamente bisognerebbe fare con gli street food. Le pizzerie erano un lusso da concedersi nei giorni di festa o in occasioni di ricorrenze e così, a Napoli, per secoli la pizza la si è mangiata a libretto (o portafoglio), cioè ripiegata in quattro e avvolta in un pezzo di carta da salumiere. E quando proprio non si riusciva a resistere alla bontà di una pizza, la si poteva pagare “a otto”, cioè otto giorni dopo averla mangiata.

Prima di essere utilizzato univocamente per indicare la pizza come la conosciamo oggi, questo termine era utilizzato principalmente per torte, dolci e salate, come la pizza crema e amarena, l’antesignana del pasticciotto crema e amarena, oppure l’antichissima pizza di scarole. La pizza deve il suo successo alla bontà del prodotto, innanzitutto, alla sua economicità, e facile reperibilità, ma anche grazie prima alle decine di canzoni che la decantavano, poi alla televisione e al cinema, dov’è stata protagonista di numerosi film. Curiosamente, però, la canzone più famosa sulla pizza l’ha scritta un milanese doc, Alberto Testa, poi cantata e portata al successo da Renato Carusone e da Gaber:

io te ‘ncuntraje
volevo offrirti
pagandolo anche a rate
nu brillante
‘e quínnece carate

ma tu vulive ‘a pizza ‘
a pizza, ‘a pizza
cu ‘a pummarola ‘ncoppa

Tutti i grandi autori della canzone napoletana hanno cantato la pizza:

1896 – ‘O pizzaiuolo nuovo (Capurro/Gambardella);
1902 – ‘A pizzaria ‘e Don Saveratore (Di Giacomo/Valente);
1908 – ‘O pizzaiuolo (Fiordelisi/Mazzone);
1947 – ‘A canzone d”a pizza (Garofalo/E. A. Mario);
1948 – ‘A pizza c”o segreto (E. A. Mario);
1955 – Sophia (Caputo/Framel);
1957 – ‘A pizzaiola (Casolini/Bonafede); – Cardulella (Furnò/Oliviero); – ‘A pizza c”a pummarola (Pazzaglia/Modugno);
1966 – ‘A pizza (Testa-Martelli)

Appuntamento alle prossime pietanze…

Fofò Ferriere
Giancarlo Panico

Foto © Pixabay.com/SalvatoreMonetti




CAVULUCIORE (Cavolfiore)

Pasta e cavoli si cucina con il pomodoro o senza?
Da almeno due secoli questo interrogativo accompagna uno dei piatti storici della cucina napoletana e oggi di quella italiana. Considerati sacri nell’antichità, venivano consumati crudi dai romani, prima dei banchetti, per far assorbire meglio l’alcool; i greci invece erano soliti utilizzarli come curativo della sbornia.

Usato per secoli come pianta curativa, nel 1600 il brodo di cavolo era consigliato per guarire e prevenire patologie polmonari, ma anche raffreddori, laringiti e reumatismi. Solo tra la metà del ‘700 e l’inizio dell’800, il cavolfiore inizia ad entrare in cucina, divenendone subito uno dei protagonisti indiscussi.
A minestra, con la pasta, lessi e in insalata, i cavoli diventano uno degli alimenti preferiti dai napoletani.

Le cronache del Regno delle Due Sicilie ricordano che tutto attorno alla città di Napoli “era come un grande orto”, e nel 1787 ogni giorno “in città arrivavano grandi quantità di verdure fresche”, tra cui abbondavano i cavolfiori e le torselle. Sin dalla metà del 1700 e per oltre un secolo, i territori della zona Vesuviana, dove i cavoli crescevano rigogliosi grazie alle fertilità del terreno lavico, hanno consentito al Regno delle due Sicilie di essere primo produttore europeo. Quei cavuluciori erano coltivati a Nord e Sud della città alla falde del Vesuvio, tanto che San Giorgio a Cremano, molto probabilmente, deve il suo nome proprio alle coltivazioni estensive di cavolo. La città del compianto Massimo Troisi, infatti, nasce dall’unione di due borghi, San Giorgio, che deve il nome alla venerazione dell’omonimo santo e Cambrano che secondo diverse fonti deriva dal latino arcaico “cambre” che significava proprio “cavolo” dalla fiorente coltivazione di questo ortaggio.

Ma i cavoli si mostrarono molto utili soprattutto alla fine del ‘400 quando, in seguito alla scoperta dell’America, iniziò l’epoca dei viaggi esplorativi. Navigando per lunghi periodi senza avere la disponibilità di cibi freschi, infatti, i marinai avevano sempre a bordo una grossa scorta di cavoli, molto utili per contrastare lo scorbuto, una malattia causata dalla carenza di Vitamina C. Il Capitano James Cook, uno dei più grandi navigatori ed esploratori della storia, durante tre anni di navigazione, in tutte le latitudini e a tutti i climi, non perse nessuno dei suoi 118 uomini dell’equipaggio, dal momento che faceva mangiare loro cavoli cotti o crudi.
I cavuluciori sono l’ingrediente principale anche della famosainsalata di rinforzo” in cui il cavolo, un alimento fondamentalmente “povero” e leggero, viene “rinforzato” con ortaggi sott’aceto come carote, sedano, finocchi e cetrioli, olive bianche e nere, capperi e qualche acciuga salata. Dalle origini incerte, molto probabilmente il Cavalcanti, nella sua “Cucina teorico-pratica”, con il termine “caponata” si riferiva proprio agli ingredienti dell’insalata di rinforzo. Sembra un piatto semplice da preparare eppure a Napoli, e più in generale in tutta la Campania, al pari del ragù o della pastiera, per citare due ricette tradizionali, la sua ricetta e preparazione è ancora oggi molto dibattuta: ognuno ha la sua tecnica che si tramanda da generazioni e quella propria è la migliore.

Almeno tre sono le leggende, o comunque le storie, raccontate in merito a questa squisita pietanza e che provano a dare una spiegazione al nome senza dubbio originale. La più diffusa è quella secondo la quale è detta “di rinforzo” perché, a partire dalla vigilia di Natale, man mano che viene consumata, è usanza “rinforzarla” con gli ingredienti mancanti, ma anche arricchirla con sapori nuovi. Perché è un piatto che, seppur preparato rigorosamente il 24 dicembre, accompagna tutto il periodo natalizio e la presenza dell’aceto preserva la qualità degli ingredienti per più giorni.
Un’altra teoria, invece, fa riferimento al fatto che originariamente l’insalata di rinforzo era una pietanza prevista esclusivamente per il cenone della vigilia di Natale, per tradizione magro, molto leggero, composto solamente da qualche pietanza di pesce. Dunque, la funzione dell’insalata era appunto quella di “rinforzare” la cena rendendola più sostanziosa. La terza motivazione è quella secondo la quale l’insalata, servita come antipasto, aiuta ad aprire lo stomaco, a “rinforzarlo” e prepararlo ad accogliere tutte le altre portate. Molto gustosa e ricca di sapori, ha un sapore deciso grazie anche alla presenza delle cosiddette “papacelle”, peperoni tondi leggermente piccanti conservati sott’aceto, talvolta ripieni. Il piatto si presta ad infinite varianti e infatti ogni famiglia ha la propria ricetta: c’è chi ad esempio aggiunge la scarola, chi invece il capitone avanzato.

Appuntamento alle prossime pietanze…

Fofò Ferriere
Giancarlo Panico

Foto © Pixabay.com/Skeeze




ALLESSE (Castagne lesse)

Quanno siente ‘allesse nuvelle, accuònciate ‘e scarpe e accatàte ‘o mbrell!”.

Trovare le allesse dai castagnari preannunciava l’inverno e la stagione delle piogge, come si evince da questo antichissimo detto popolare: Arrustute, ansertate o allesse. Palluottele o Vallene. Del monaco o del preveto (del prete), quelle prodotte e consumate tradizionalmente nel periodo natalizio.
Le castagne, a Napoli e più in generale in Campania, per secoli primo produttore europeo, sono comunque le “allesse”, anche quando non sono propriamente lesse. Il famoso “cuoppo allesse” (il coppo di allesse), è un’espressione ancora oggi utilizzata per apostrofare una donna non proprio bella. Ancora peggio è ‘o scampolo di allesse, utilizzato in modo dispregiativo da Roberto De Simone ne “La Gatta Cenerentola”.

E se le “allesse” oggi sono confinate alle cucine domestiche, le caldarroste a Napoli, come anche a Roma, non è difficile trovarle lungo le strade anche tutto l’anno, così come un tempo quando il castagnaro, il venditore di castagne allesse e arrostite, era uno dei mestieri più diffusi nella capitale del Regno delle due Sicilie.
Prepararle è semplicissimo! Basta farle cuocere per almeno 15 minuti a fuoco lento in acqua bollente con una foglia di alloro.

Appuntamento alle prossime pietanze…

Fofò Ferriere
Giancarlo Panico

 

Foto © Pixabay.com/Jackmac34




L’“Alfabeto essenziale della cucina napoletana”

Questa rubrica è tratta dal Libro che ho scritto insieme al mio amico Giancarlo Panico dal titolo “Alfabeto essenziale della cucina napoletana”. Cercherò nei vari “post” relativi ai termini legati alla cucina partenopea di tracciare una strada di conoscenza e consapevolezza di quello che rappresenta la cultura gastronomica napoletana.
Sulla cucina napoletana, in questi anni, è stato detto e scritto di tutto. Eppure ci sono ancora tantissime persone, anche napoletani, che non conoscono l’origine di alcuni piatti, perché si preparano in un certo modo, perché si usano determinati ingredienti o si seguono veri e propri riti nella loro preparazione, come per il ragù o la genovese. In questo spazio non si aggiungerà nulla a ciò che già si conosce. Ci si propone piuttosto di essere una chiave di lettura per apprezzare ciò che mangiamo e provare a prospettare una visione dell’alimentazione quotidiana più ampia che, ancor prima di essere fisiologica, è sociale e culturale.

Perché proporla in forma di alfabeto?

L’alfabeto è l’insieme delle lettere che servono per costruire le parole e il linguaggio, se non lo si conosce e lo si padroneggia bene, è difficile parlare bene. Lo stesso principio vale anche per la cucina napoletana: se non si conoscono gli alimenti, la storia di piatti e pietanze, finanche la loro etimologia, non si potranno mai apprezzare.

I vari post che leggerete nascono da un lungo lavoro di ricerca e documentazione sugli alimenti, i cibi, i piatti e le pietanze della cucina napoletana, ma anche dai racconti e dalle testimonianze di chi, con la cucina napoletana, ci vive e ci lavora quotidianamente. Non hanno e non potrebbero avere la pretesa di essere esaustivi e per questo vengono proposte solo alcune voci (quelle che in questi ultimi anni abbiamo studiato, cucinato e… soprattutto assaggiato a più tavole e nelle interpretazioni di cuochi e chef diversi).
Certamente non saremo buoni scrittori ma sicuramente siamo buoni mangiatori!

Fofò Ferriere

Di seguito un “assaggio” del primo termine tratto dal libro:

ACCIO (Sedano)

Ingrediente fondamentale della cucina napoletana. Dalla minestra maritata alle settecentesche zuppe di legumi, verdure e ortaggi, è immancabile nelle più diffuse e note ricette della tradizione: dal ragù alla genovese alla bolognese napoletana, alla pasta e patate. E se la zuppa di accio (e baccala) è una delle ricette tipiche della tradizione irpina e più in generale dell’entroterra campano, dove si prepara e si consuma come pranzo della vigilia di Natale, a Napoli il suo uso in cucina si perde nella notte dei tempi. L’impiego del sedano era già noto ai tempi di Apicio, che lo consiglia nei purè di legumi, molto diffusi in epoca romana, e nelle farinate, ma è a Napoli che diviene popolare.
Se oggi è stato nobilitato ed è presente in molti aperitivi, da consumare con le salse più diverse, dalla classica maionese alla tartara, alla salsa rosa o immancabile nelle insalate e nelle diete, per molti secoli è stato utilizzato, al pari della cipolla, come rudimentale “cucchiaio” da zuppa di legumi. Il termine napoletano “accio”, che si ritrova anche in altri dialetti, deriva dal latino apium (il nome del sedano è proprio apium graveolens), conosciuto e utilizzato come pianta medicinale fin dai tempi di Omero. Ancora oggi a tocchetti, soffritto con carote, zucchine, patate e cipolle, costituisce la base per molti sughi e salse, di cui la più buona è quella che a Napoli viene chiamata “finta genovese”.

Alle prossime pietanze…

Fofò Ferriere
Giancarlo Panico