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Acciughe o alici?

Piccoli pesci a lungo bistrattati e destinati al consumo tra le classi più popolari, vivono oggi una nuova giovinezza. Vuoi per le loro carni gustose, vuoi per le notevoli proprietà nutrizionali, vuoi per la sostenibilità delle pratiche di pesca, le acciughe stanno prepotentemente acquisendo un ruolo di primo piano nella nostra alimentazione. È notizia recente, infatti, che alcune scuole elementari hanno introdotto questo “pesce azzurro” nei loro menù settimanali.

Una pesca antica, che affonda le radici nel Mediterraneo, dagli Egiziani ai Greci, dai Romani fino ai nostri giorni, una storia millenaria in pratica. Con la Sicilia che, lungo lo scorrere dei secoli, è sempre stata al centro di quest’attività di pesca, anche con riferimento alla lavorazione di questo straordinario pesce azzurro. Basti pensare agli stabilimenti per la salagione di Sciacca, in provincia di Agrigento o a quelli di Porticello, in provincia di Palermo. Le acciughe sono pesci di piccole dimensioni, con lunghezza compresa tra 10 e 20 cm, appartenenti alla famiglia Engraulidae, che comprende tutte le specie utilizzate per l’alimentazione umana. Tra le principali l’acciuga cilena, Engraulis Ringens, pescata nel Pacifico meridionale al largo delle coste del Cile, e Engraulis Encrasicolus, l’acciuga europea che si pesca nei nostri mari.
Le acciughe si riproducono rapidamente, nel periodo compreso tra aprile e novembre, con un picco in luglio e agosto e occupano un posto intermedio nella catena alimentare: si nutrono infatti di piccoli crostacei e molluschi e sono preda a loro volta di pesci più grandi e mammiferi marini. Vivono in media due o tre anni ma possono arrivare fino ai cinque, tutti elementi questi che le rendono una risorsa preziosa per l’alimentazione umana.

Le acciughe sono chiamate anche alici, particolarmente nel meridione ed in Sicilia, termine che deriva dal latino hallex, una salsa che si otteneva appunto da questi pesci.
Se pensavate che le acciughe e le alici fossero due pesciolini diversi non è solo colpa vostra, in quanto molto spesso, con il termine acciughe si intendono i pesci interi conservati sotto sale, e con il termine alici gli stessi pesci sfilettati e messi sott’olio.
A volte, addirittura, i pescivendoli chiamano alici gli esemplari più piccoli e acciughe quelli più grandi, causando ulteriore confusione.

Ricordate, quindi, che le alici e le acciughe sono la stessa cosa!

Acciughe o sardine?

I problemi non finiscono qui, perché a causare ulteriore confusione entra in gioco un altro pesce azzurro molto simile all’alice: la sardina. Tra alici e sardine effettivamente c’è differenza in quanto appartengono a due famiglie diverse, cerchiamo di capire come riconoscere una dall’altra: le alici sono di dimensioni più piccole fino ad un massimo di 18 cm hanno squame con sfumature dorate, corpo affusolato e Mascella superiore più lunga di quella inferiore; le sardine, invece, si presentano con un corpo leggermente più tozzo e di dimensioni maggiori: fino a 25 cm, squame con sfumature rossicce e una mascella inferiore più lunga di quella superiore.
Il sapore delle alici e delle sardine è simile, e si prestano tutte e due a molti tipi di preparazione: marinate, fritte, come condimento per ottimi piatti di pasta e chi più ne ha più ne metta.

Alici: come conservarle

Alici sotto sale:

Sin dai tempi antichi entrano a far parte di molti piatti tipici della cucina piemontese. Di fatto, viene naturale chiedersi: “Perché, nonostante il Piemonte si trovi lontano dal mare, numerose ricette della nostra cucina, hanno le acciughe come ingrediente di base?”.
Su questo argomento sono state avanzate diverse ipotesi, fra queste, molto probabilmente, la più veritiera deriva dal commercio del sale. Si narra che, in tempi remoti, i commercianti di sale, di ritorno dalle saline ubicate in Provenza ed essendo oberati da alti dazi sul sale, usavano coprire l’ultima parte della botte, riempita di sale, con le acciughe sotto sale, in modo da sfuggire agli occhi dei gabellieri. Con il commercio dalle acciughe nasce la figura degli acciugai.
Originari principalmente dalla Val Maira, gli anciuè erano persone che nel periodo della brutta stagione, ovvero quando il lavoro agricolo e pastorizio poteva offrire solo più scarse risorse, si vedevano costretti a cercare fonti di guadagno altrove e si dedicavano al commercio delle acciughe sotto sale, per lo più acquistate in Liguria.
Dato che, ormai, sono in pochi a praticare questa professione, nel 2007 è nata in Val Maira la “Confraternita degli acciugai”, con lo scopo di promuovere, salvaguardare e valorizzare il mestiere di acciugaio.

Ricetta alici sotto sale:

Solitamente, le alici sotto sale sono conservate in contenitori di vetro detti “Arbanelle”, anche fino a due o tre anni. Ogni “Arbanella” piccola può contenere circa 1,5/2 kg di pesce e necessita di 1 kg di sale grosso.

  • Cospargere il fondo con due cucchiai da cucina di sale grosso e poi mettere i pesci in fila, disposti testa-coda, con due di traverso ai lati, per riempire lo spazio curvo che avanza ai lati della fila.
  • Ricominciare poi coprendo i pesci con altri due cucchiai di sale;

N.B Non è necessario coprire con un centimetro di sale, due strati di pesce possono anche toccarsi in certi punti, l’importante e non lasciare grossi vuoti.

  • Procedere in questo modo per 5-6-7 strati finché l’Arbarella non è piena fino a 2 cm dal bordo, distanza che andrà colmata con il sale fino all’orlo.
  • Coprire poi con una pietra piatta e rotonda, o un disco di vetro, o un piattino da caffè, per mantenere il tutto pressato.
  • A questo punto, si può riporre a “maturare” senza più intervenire.

Questo è solo uno dei modi in cui poter conservare le alici. Nel prossimo appuntamento, invece, vi parleremo di come conservare le alici sott’olio, e di un prodotto celebre: la colatura di alici di Cetara. Non mancate e, soprattutto… buon appetito!

a cura di Vincenzo Russolillo




Il Caffè

Il primo pensiero del mattino? Una tazza di Caffè…

Chi di noi non si sveglia con quel pensiero? Chi lo prende a casa, chi al bar, chi amaro, qualcuno lo preferisce macchiato, ristretto, lungo, caldo, nessuno sembra possa farne a meno.
Intorno a questa bevanda “scura e puzzolente”, come qualcuno la definisce, si sono formate vere e proprie scuole di pensiero, università, associazioni, confraternite e poi infiniti dibattiti, modi di vivere e di condividere questa consuetudine che, in realtà, è un vero e proprio “culto”.
Il caffè non nasce come bevanda a Napoli ma come il babà, il pomodoro, la pasta e tanti altri prodotti, è in questa città che esplode e diventa “POP” contribuendo alla diffusione di questo rito in tutto il mondo.

Come il caffè arrivò a Napoli

Partendo dall’etimologia della parola, se ne traccia anche il percorso geografico: caffè deriva dall’arabo qahwa (eccitante), poi divenuto kahve in Turchia, terra dalla quale è approdato in Europa. La pianta è originaria dell’Etiopia e si diffonde in Arabia e Turchia. Fu Vienna la prima città europea ad apprezzare questa bevanda così piacevole, introdotta in loco nel 1665 dal pascià Kara Mahmud nel ruolo di ambasciatore turco alla corte di Leopoldo I, tanto da dedicarle alla fine del XVII secolo i Kaffeehaus, raffinati caffè viennesi dei quali ci sono ancora deliziose testimonianze. Nella splendida Napoli del periodo dei Borbone, il culto del caffè giunse con Maria Carolina D’Asburgo, figlia di Maria Teresa, divenuta moglie di re Ferdinando IV di Borbone nel 1768.

La diffusione nelle classi sociali meno abbienti iniziò solo agli inizi dell’‘800: fu solo allora, infatti, che la città si arricchì delle grida colorite di caffettieri ambulanti. Queste figure, ormai scomparse, percorrevano la città in lungo e in largo, muniti di due recipienti, uno pieno di caffè e l’altro di latte, e di un cesto con tazze e zucchero. I caffettieri, oltre a fornire una colazione veloce ai napoletani più affrettati, urlavano ogni giorno il nome del santo che si festeggiava, in modo che i più sbadati ricordassero anche di fare gli auguri ad amici e parenti.
In seguito fu comunque Napoli ad eccellere nella preparazione del caffè utilizzando una tostatura dei chicchi decisa, così da conferire un gusto ricco e cremoso in tazzina. L’arrivo poi della “cocumella nelle case dei napoletani favorì l’inserimento della bevanda nella cultura popolare: definita “la caffettiera napoletana”, anche se oggi quasi nessuno la usa più perché poco pratica rispetto alla moka, un po’ tutti amano averla in casa o regalarla.

A Napoli, inoltre, il caffè viene celebrato nella musica, nel cinema e nel teatro con canzoni, scene di film e addirittura nel celebre monologo di Eduardo De Filippo in “Questi Fantasmi”:

Sul becco io ci metto questo coppitello di carta… Pare niente, questo coppitello, ma ci ha la sua funzione… E già, perché il fumo denso del primo caffè che scorre, che poi è il più carico, non si disperde. Come pure, professo’, prima di colare l’acqua, che bisogna farla bollire per tre o quattro minuti, per lo meno, prima di colarla, vi dicevo, nella parte interna della capsula bucherellata, bisogna cospargervi mezzo cucchiaino di polvere appena macinata. Un piccolo segreto! In modo che, nel momento della colata, l’acqua, in pieno bollore, già si aromatizza per conto suo.

Ogni napoletano diventa quindi un alchimista del caffè: tutti hanno teorie, procedimenti e trucchi per preparare la bevanda, formatisi attraverso anni di preparazione e frequentazione di caffettiere e bar. Certo, c’è chi è più bravo e chi è meno bravo, ma quel che è certo è che il caffè entra a pieno titolo in ogni famiglia come elemento insostituibile e non c’è mattina o “post pranzo” in cui questa pratica non venga rinnovata.
Oggi non ci sono più carrettini ambulanti, la moka sta lasciando spazio alle cialde, ma il caffè, come duecento anni fa, serve ancora a creare legami, a confidarsi, a raccontare storie che senza quell’aroma e quell’odore forse non troverebbero la loro espressione.

Nun ce sta’ nien a fa’, o’ cafè è “social”!!!

a cura di Vincenzo Russolillo




Il Baccalà

Il pesce dalla doppia vita: una da merluzzo del Mare del Nord, la seconda sulle nostre tavole dopo una resurrezione che lo trasforma, a seconda dei metodi di lavorazione, in Baccalà o Stoccafisso. Un pesce dai mille volti, in grado di trasformarsi in piatti prelibati ed essere inserito in infinite ricette. Basti pensare che i portoghesi hanno 366 ricette ufficiali con ingrediente il baccalà che coprono tutti i giorni di un anno, anche se bisestile.

La procedura di salagione del baccalà (dalla parola basso tedesca bakkel-jau che significa “pesce salato”) sembra si debba  attribuire ai pescatori baschi che, seguendo i branchi di balene e arrivati al Mare del Nord, si imbatterono in enormi banchi di merluzzo verso l’isola di Terranova, ne catturarono in grandi quantità e usarono per questo pesce il procedimento di conservazione già utilizzato per la carne di balena.
Per quanto riguarda lo stoccafisso (dal norvegese stokkfisk, ovvero “pesce a bastone”)invece sembra che i metodi di preparazione risalgano a molti secoli fa, addirittura al 1200, ed al modo di conservazione utilizzato dai pescatori delle isole Lofoten, in Norvegia. In queste zone, tra febbraio e aprile, migra il merluzzo artico norvegese (gadus morhua) per deporre le uova. Catturato in grandi quantità, veniva messo sui supporti e lasciato all’aria aperta e qui il clima freddo e secco, tipico di quei mesi nella penisola scandinava, costituiva un ambiente ideale per essiccare il pesce e proteggerlo dagli insetti e dalla contaminazione batterica.
I metodi di lavorazione del baccalà e dello stoccafisso, come abbiamo visto, prendono strade diverse. Anche la materia prima può differire: infatti per il baccalà può essere usata sia la tipologia “gadus macrocephalus” che “gadus morhua” mentre per lo stoccafisso invece la razza specifica è la “gadus morhua”.

Fasi di lavorazione del baccalà:

  1. Pulitura: prima di tutto, il merluzzo viene attentamente pulito e lavato in acqua corrente
  2. Salatura: dopo essere stato pulito, il merluzzo passa alla salatura. In questa fase, il pesce viene collocato in grandi casse e ricoperto di sale
  3. Cambio di posizione: ogni 4-5 giorni il merluzzo viene rigirato e cambiato di posizione. Durante questa operazione, il pesce perde l’acqua in eccesso e assorbe completamente il sale
  4. Controllo qualità e selezione: mentre si effettua il cambio di posizione del merluzzo, si controlla anche la qualità e si opera una selezione del pesce
  5. Classificazione e imballaggio: dopo circa tre settimane, il processo di salatura è completo e il baccalà è pronto per essere classificato e imballato

Fasi di lavorazione dello stoccafisso:

La lavorazione è paragonabile a quella di altri prodotti alimentari invecchiati, come i liquori, i prosciutti o i formaggi. Il pesce viene preparato immediatamente dopo la cattura. Dopo averlo decapitato e pulito, viene essiccato intero o aperto lungo la spina dorsale, lasciando le metà unite per la coda viene essiccato all’aperto, grazie all’azione del sole e del vento, su apposite rastrelliere. Il perfetto equilibrio tra sole e vento artico ha un ruolo fondamentale, perché il pesce si deve essiccare in modo uniforme. Inoltre, durante il periodo di essicazione si effettuano costanti controlli sulla distanza tra un merluzzo e l’altro. Questo perché la distanza deve essere tale da far circolare l’aria e far sì che non si formino macchie, muffa o residui di sangue che ridurrebbero la qualità del prodotto finale.

Veniamo adesso a come questi prodotti si diffondo in Italia e in Campania:

Lo stoccafisso sarebbe stato introdotto nel Triveneto dai veneziani, che erano grandi navigatori e portavano in patria ogni novità. La più diffusa versione dei fatti sostiene che, nel 1432, la spedizione agli ordini del capitano veneziano Pietro Querini naufragò in Norvegia, sull’isola di Rost. Rientrando a casa, il Querini portò lo stoccafisso, che nel Triveneto è tuttora chiamato baccalà. I veneziani videro nello stoccafisso un’allettante alternativa al pesce fresco, costoso e facilmente deperibile. Nacque allora la tradizione di consumare questo piatto secondo varie ricette, tra le quali il “baccalà alla vicentina”.

Risale invece al 1500 ed ai primi affari sulle rotte marittime tra produttori vesuviani e del Nord Europa, l’arrivo del Baccalà in Campania  e sembra che i napoletani usassero  mettere in ammollo le famose “scelle” nelle acque delle sorgenti del fiume Sebéto a ridosso del Monte Somma.
Ritornando alla sua diffusione in Campania, quest’ultima venne favorita grazie alla Controriforma cattolica che vietava il consumo di carne nelle feste comandate. Il baccalà divenne una delle prime alternative alla carne e prese piede anche e soprattutto nei dintorni del capoluogo, grazie anche ai monaci di Madonna dell’Arco, che tra Sant’Anastasia e Somma insediarono e utilizzarono le prime vasche adatte ad «ammollare» il pesce, dunque a farlo rinvenire per essere poi lavorato e messo in commercio come un prodotto fresco.
Da allora il baccalà e lo stoccafisso sono entrati di prepotenza nella cucina napoletana, diventando uno dei piatti simbolo del Natale ed una delle pietanze più amate dalla tradizione  popolare.
Somma Vesuviana è la capitale del baccalà, i rapporti che ha consolidato con Norvegia e Islanda, la rendono la maggiore realtà produttiva del Mezzogiorno, insidiata in Italia solo da Veneto e Marche.
Qui si trovano infatti le più grandi aziende italiane d’importazione e di conservazione di baccalà che è riuscito a rendere più gustosa la tavola delle case più povere con il “mussillo” o con il “curuniello”, cioè il dorso e la pancia del merluzzo.

Stocco “arrecanato” con patate, baccalà all’insalata, linguine e baccalà e naturalmente baccalà fritto sono alcuni esempi di come la fantasia partenopea abbia inserito il baccalà nelle sue ricette e di come la tradizione del consumo di questo cibo mieta sempre più seguaci…

Buon Appetito!!!

a cura di Vincenzo Russolillo




La Giuria dei Pomodori elegge il suo vincitore del Festival

Questo pomeriggio, a Casa Sanremo, abbiamo avuto il piacere di ospitare il Maestro Beppe Vessicchio che, accantonate le polemiche della sua mancata partecipazione al Festival, ci ha parlato dei suoi studi che riguardano la musica e i pomodori, e di come la prima influenzi i secondi.
Ad una platea scettica, aiutato da una simpatica clip realizzata insieme ai The Jackal, Vessicchio ha spiegato come il modo in cui si aggregano le molecole dei pomodori, pur restando invariabili, è suscettibile alle frequenze della musica armonico-naturaliChecché se ne dica quindi, anche i pomodori hanno “gusti e preferenze musicali”.

La ghiotta occasione di avere il Maestro Vessicchio a Casa Sanremo, quindi, ci ha dato lo spunto per dar vita, insieme al nostro Fofò Ferriere, grande esperto ed estimatore di questo ortaggio, al primo Brix Factor della storia: dopo aver sentito, nel corso degli anni, le opinioni di giuria demoscopica, giuria della stampa, televoto, giuria di esperti ecc. abbiamo voluto dar vita alla “Giuria dei pomodori”, la prima giuria di ortaggi del Festival di Sanremo. Il verdetto è arrivato dopo l’osservazione delle reazioni dei pomodori all’ascolto delle canzoni in gara al Festival, misurandone acidità e consistenza.
A vincere questo particolare premio i Negrita che, come ha detto lo stesso Maestro, hanno spiccato di poco ma hanno vinto su tutti gli altri. Anche i pomodori quindi hanno una preferenza di tipo armonico sebbene, come chiosa Vessicchio: “Non c’è giuria che non abbia un pregiudizio”.

a cura di Vincenzo Russolillo




La scarpetta

Dal Dizionario Treccani online e dal Grande Dizionario della Lingua Italiana che la riporta nell’italiano scritto solo nel 1987: «raccogliere il sugo rimasto nel piatto passandovi un pezzetto di pane infilzato nella forchetta, o più comunemente tenuto tra le dita».
La ricordi da bambino la “scarpetta”, quando la domenica mattina, senza farti vedere da mammà, intingevi il pane nella pentola dove “pappuliava” il ragù, e la riporti all’età adulta dove alla fine di uno spaghetto al pomodoro, quasi come un gesto innato, un rituale, prendi il pane e lo fai scivolare nel piatto per recuperare il sugo avanzato.

Gesto di piacere, a cui difficilmente si rinuncia, una sorta di prolungamento di emozione per aver gustato una pietanza particolarmente buona e che avresti preferito non finisse.
Siamo in tanti che al piacere della “scarpetta” non rinunciano, facciamo parte di quella schiera di buongustai che nel cibo cercano il piacere, l’atto consolatorio, il momento in cui alleviare le tensioni con un rituale che racchiude in sé il senso del “godere della vita”.

Tornando all’origine dell’espressione, essa non è proprio chiara. Non si sa quando sia nata perché fa parte del linguaggio comune parlato. C’è chi pensa che la scarpetta rimandi a un tipo di pasta alimentare di forma concava che avrebbe favorito perciò la raccolta del sugo residuo nella scodella o nel piatto, chi invece ritiene sia attribuibile al gesto familiare ma poco elegante dell’espressione, si rifà all’oggetto scarpetta, di solito leggera e sottile, per indicare un’azione compiuta da un “morto di fame”. Non mancano spiegazioni più impegnate: alcuni la attribuiscono alla Siria dove in passato il pane aveva la forma di scarpa perché veniva lavorato e battuto con i piedi e infornato subito dopo, questo pane veniva poi inzuppato nelle minestre di polpa di melanzane con verdure”. Altri, sottolineando l’origine meridionale della locuzione, “scarsetta”, cioè povertà, che costringe ad accontentarsi di quello che è avanzato nei piatti altrui, da raccogliere come fa una scarpa che struscia sul suolo.

Ma la scarpetta è opportuna a tavola?

Il galateo dice che la scarpetta non è proibita ma vuole che si faccia solo in occasioni informali e usando la forchetta e non le mani. Ma diciamo la verità, una scarpetta non infastidisce nessuno. Quando siamo tentati dall’idea, di solito a tavola aspettiamo che qualcun altro compia il gesto per poi seguirlo a ruota e… abbasso il galateo!

Schiere di chef si sono battuti in difesa di questo gesto in questi anni e non sono mancate vere e proprie iniziative gastronomiche volte alla sua valorizzazione. Il Maestro Gualtiero Marchesi ha sempre detto che non c’è nulla di più soddisfacente per uno chef di un piatto che torna in cucina pulito, perché il cliente lo ha letteralmente asciugato col pane fino all’ultima goccia.
Insomma la “scarpetta” è una filosofia di vita, un piacere per le papille gustative e un appagamento per il nostro cervello.
Da oggi in poi, nel fare la scarpetta a fine pranzo ricordatevi di tutto questo e… “celebrate il rito”!

Buon Appetito!!!

Fofò Ferriere
Gennaro Fierro




Come conservare le alici sott’olio

Nello scorso appuntamento vi abbiamo parlato di alici e acciughe che, come ricorderete, sono solo due diversi modi di chiamare lo stesso tipo di pesce azzurro.
Abbiamo anche visto come poter conservare le alici sotto sale mentre, stavolta, vi illustreremo un altro metodo di conservazione, realizzato utilizzando olio extravergine di oliva.

La conservazione delle alici sott’olio è di più recente diffusione, rispetto a quella sotto sale. È stato infatti nel Settecento che si è cominciata a diffondere, con l’aumentare della disponibilità di oli, anche la possibilità di conservazione che offrisse l’utilizzo dell’olio come condimento.
Le alici sott’olio richiedono molto lavoro di preparazione oltre che un prodotto freschissimo.
È da notare che le alici migliori sono quelle che vengono prima salate e, poi, dopo un mese, conservate sotto un olio extra vergine di oliva. Ma, olio a parte, vediamo le varie fasi di lavorazione:

Ricetta alici sott’olio

  • Occorre innanzitutto una fase di salamoiatura umida o secca. Lo scopo è semplice, ovvero l’immersione del pesce in salamoia serve ad eliminare la maggior quantità di sangue e di sostanze grasse.
  • La seconda fase è la decapitazione ed eviscerazione dell’alice. Questa è una fase importantissima: se non viene fatta bene alcuni residui di viscere possono portare batteri o altri parassiti pericolosi. A questa fase dovrebbe seguire una seconda immersione in salamoia per ripulire ulteriormente le parti ancora sporche di sangue o di escrementi.
  • Successivamente, le alici vanno salate e pressate, e poi fatte “maturare” almeno 30 giorni sotto sale. Dopo questo periodo, le alici vanno infine lavate, desquamate, pulite ed asciugate.
  • Infine vanno filettate, confezionate sott’olio ed alla fine confezionate.

Tra le eccellenze italiane delle alici sott’olio vanno ricordate quelle di Cetara, per il particolare metodo di lavorazione rende le alici estremamente gustose, e quelle di Montecalvo Irpino.

Colatura di alici di Cetara

La ormai celebre colatura di alici di Cetara è una salsa liquida trasparente, dal colore ambrato, che viene prodotta da un tradizionale procedimento di maturazione delle alici in una soluzione satura di acqua e sale. Le alici impiegate sono pescate nei pressi della costiera amalfitana, nel periodo che va dal 25 marzo, che corrisponde alla festa dell’Annunciazione, fino al 22 luglio, giorno di Santa Maria Maddalena.

Le origini di questo prodotto gastronomico risalgono ai Romani, che producevano una salsa molto simile alla colatura odierna, chiamata garum. La ricetta venne poi in qualche modo recuperata nel Medioevo da parte dei gruppi monastici presenti in Costiera, i quali, ad agosto, erano soliti conservare sotto sale le alici in botti di legno con le doghe scollate e poste in mezzo a due travi. Sotto l’azione del sale, le alici perdevano liquidi che fuoriuscivano tra le fessure delle botti.

Colatura di alici: ricetta originale

Fasi di lavorazione:

  • Dalle alici, appena pescate, vengono rimosse la testa e le interiora, sono quindi tenute per 24 ore in contenitori con abbondante sale marino.
  • Vengono poi trasferite in piccole botti di castagno o rovere (dette terzigni), alternate a strati di sale, e ricoperte da un disco di legno sul quale sono posti dei pesi, via via minori col passare del tempo.
  • A seguito della pressione e della maturazione del pesce, il liquido affiora in superficie e, nel caso di preparazione di alici sotto sale, viene rimosso.

Questo è il liquido che fornisce la base per la preparazione della colatura di alici che viene infatti conservato ed esposto alla luce diretta del sole che, per evaporazione dell’acqua, ne aumenta la concentrazione.

  • Dopo circa quattro o cinque mesi, tipicamente quindi tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre, tutto il liquido raccolto viene nuovamente versato nelle botti con le alici, e fatto lentamente colare attraverso un foro, tra gli strati di pesce, in modo da raccoglierne ulteriormente il sapore.

Infine, viene filtrato attraverso teli di lino, ed è quindi pronto per gli inizi di dicembre.

Buon appetito! 

Fofò Ferriere
Gennaro Fierro

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Cruciverba a cura di Fortuna Nuzzo

Foto © Pixabay.com/Silberfuchs




L’Olio di Oliva nella storia – Seconda parte

Nell’articolo precedente sull’olio di oliva, abbiamo visto come nasce questa pianta, i miti che la riguardano e, soprattutto, perché, da sempre, è simbolo di pace. Scopriamo, invece, insieme, come dall’Antica Grecia questa pianta arriva in Italia, nella nostra terra, diventandone una delle colture principali e, attualmente, più antiche.

L’ulivo nell’Antica Grecia

Solone (640-561 a.C.), poeta, legislatore e arconte (uno dei nove capi ateniesi), fece piantare un gruppo di ulivi e fu famoso, nella legislatura del 594, per aver promosso l’olivicoltura ponendola sotto la protezione di Zeus. Un’ennesima leggenda vuole che Alliroto, figlio di Poseidone, al fine di vendicare la sconfitta paterna, avrebbe tentato di abbattere questi alberi con un’ascia che gli sarebbe sfuggita e lo avrebbe ucciso. Secondo un’altra versione, Alliroto sarebbe stato colpito dal fulmine di Zeus.
Nella norma emanata da Solone, valida per tutta l’Attica, veniva vietato l’abbattimento di ulivi. In caso di estrema necessità e per la costruzione di aree votive, il numero di alberi da abbattere non doveva superare le due unità all’anno. Anche in un’orazione di Lisia troviamo cenni a leggi sulla protezione dell’olivo.

L’ulivo nel bacino del Mediterraneo

In paesi come Palestina, Siria e Creta, luoghi di origine delle più antiche civiltà, si sviluppò la prima olivicoltura. Da lì, l’ulivo si diffuse nel Mediterraneo da oriente ad occidente. Tale diffusione avvenne in più fasi.
La prima
, e la più nota, coincide con il periodo che va dal 5000 al 1400 a.C., raggiungendo l’apice dopo il 2000 a.C. quando l’ulivo da Creta si propaga in Siria, Palestina, Israele. Le relazioni commerciali e l’applicazione del “know-how” nell’olivicoltura portarono a nuovi territori da sfruttare con modeste aree nell’odierna Turchia meridionale, Cipro ed Egitto.
Intorno al 1500 a.C. inizia la seconda fase che comporta la diffusione in tutta la Grecia e nelle sue isole, tranne Micene ove questa diffusione si fermò intorno al 1100 a.C..
Anche le colonie greche furono investite dalla diffusione dell’ulivo a partire dall’ VIII sec. a.C., quando i Greci cominciarono ad espandersi nel Mediterraneo e a fondare colonie in Sicilia nell’Africa settentrionale e nella Francia del sud.

L’ulivo e l’olio nell’Antica Roma

Presso gli antichi popoli italici, l’olivo simboleggiava la fertilità dell’uomo e della terra, e anche a Roma era venerata come pianta sacra. È abbastanza facile comprendere perché questa pianta abbia attraversato i secoli rivestita di un’aura di sacralità: l’olio non solo serviva come condimento, ma la sua morchia bruciata era ricca concime, gli oli più pesanti davano luce alle lampade, mentre il suo legno prezioso poteva essere bruciato solo sull’altare degli dei. E l’olivo si lega così indissolubilmente al progredire della civiltà mediterranea.
Durante il I sec. a.C., nelle terre romane del bacino mediterraneo, si coltivano olivi e viti con tecniche d’avanguardia.
L’ulivo venne così piantato in Italia meridionale e in Africa settentrionale. Le coltivazioni già esistenti vennero invece ammodernate e ingrandite. Tra il 700 e il 600 a.C., l’albero si diffuse nella Cirenaica libica e in Francia meridionale. Anche i Fenici, particolarmente attivi nella coltivazione e trasformazione dell’ulivo selvatico, piantarono uliveti nei loro fondi introducendoli verso l’850 a.C. a Cartagine. Secondo Plinio (XV,8), l’Italia della metà del I sec. d.C. possedeva tanto ottimo olio e di poco prezzo da superare tutti gli altri paesi.
A quei tempi passava un certo periodo tra la raccolta e la molitura al torchio (torcularium): questa avveniva in un locale ove si trovavano le macine (mola olearia o trapetum) e la pressa (torculum). Non era possibile evitare un periodo di giacenza di alcuni giorni nel magazzino (tabulatum). Se questo non era dannoso per le olive sane, certamente lo era per quelle infestate da insetti o ammaccature. Oggi passano al massimo 48 ore tra la raccolta e la molitura o macinatura e, quindi, torchiatura della pasta.

L’ulivo e l’olio dal Rinascimento ai giorni nostri

Ecco dunque l’olivo affacciarsi al secolo XIV da protagonista, raffigurato rivestito delle antiche simbologie nella splendida iconografia del tempo, e il Rinascimento lo trova insieme alla vite, gran protagonista dell’agricoltura. Il governo mediceo a Firenze darà impulso all’olivicoltura concedendo gratuitamente grandi estensioni di terreno collinare a chi le coltivi e l’olio toscano è così già famoso nella penisola.
Il sec. XVIII è il secolo d’oro per l’olivicoltura nazionale: l’Italia risulta essere la produttrice del miglior olio che si trovi sul mercato europeo, tanto che durante questo secolo e nel successivo, si fanno sempre più estese le terre convertite all’olivicoltura, cui attinge non solo il settore alimentare, ma anche la nascente industria conserviera, quella dell’illuminazione, della saponificazione, e altre.
In questo periodo si notano ingenti investimenti di capitale nell’olivicoltura, che si fa sempre più impresa trainante dell’economia dovuta anche all’ampliarsi del commercio verso paesi sprovvisti del famoso prodotto, molti dei quali lo impiegano anche nell’industria tessile.

Il XX secolo, con l’arrivo delle nuove tecnologie, ha visto notevolmente semplificato il lavoro di raccolta e di molitura, consentendo prezzi migliori ed una più rapida diffusione del prodotto.
Oggi l’olio di oliva è rimasto una pietra miliare nell’alimentazione mediterranea, guardato con sempre maggior rispetto dalla dietologia moderna. Questa ci ha insegnato che usato con intelligenza, l’olio extravergine di oliva è il condimento sano per eccellenza.
I nostri antenati di questo ignoravano tutto, ma ne avevano fatto il condimento base della propria alimentazione, povera sì, ma sana ed esaltata nei sapori e nei profumi dei prodotti della terra.
Sapori e profumi che assimilano oggi, come allora, le diverse cucine di tutti i popoli che si affacciano sul Mediterraneo.

Fofò Ferriere
Gennaro Fierro

Foto © FreeImages.com/Incomode Incomode




L’Olio di Oliva nella storia

L’olivo è una pianta antichissima, la sua storia e quella dell’uomo sono legate da oltre 7.000 anni. Testimonianze dell’importanza di questa pianta nella vita dell’uomo sono presenti in diverse civiltà e religioni. Nella Bibbia il ramoscello d’ulivo è (insieme all’arcobaleno) il simbolo della pace tra Dio e gli uomini dopo il diluvio universale.

L’ulivo e l’olio compaiono anche nel Corano: “Dio è la luce dei cieli e della terra. La sua luce è come una nicchia, in cui si trova una lampada, il suo combustibile viene dall’olio di un albero benedetto, un Olivo”. 
La mitologia greca attribuisce la creazione di questo albero ad Atena, dea della Sapienza. In una competizione con il dio Poseidone, per diventare la divinità protettrice di Atene, la dea fece sorgere una pianta di ulivo da una roccia per donarla agli ateniesi, mentre Poseidone fece comparire dalla foresta un nuovo animale: il cavallo. Gli ateniesi scelsero l’ulivo, perché il cavallo rappresentava la guerra, mentre la nuova pianta avrebbe garantito loro olio, legname e luce e quindi abbondanza e pace.

Dove nasce l’ulivo

L’ulivo è originario del Mediterraneo Orientale, le tracce più antiche sono state trovate ad Haifa, in Israele, e risalgono al V millennio a.C. Le tecniche di coltivazione e di produzione dell’olio extravergine d’oliva vennero invece messe a punto prima dai greci e poi dai roman,i e rimasero sostanzialmente invariate per secoli. Anche la diffusione della pianta si deve ai greci che, nella loro espansione, portarono l’ulivo in tutti i paesi della Magna Grecia, ed ai romani che fecero lo stesso portando la coltivazione dell’ulivo fino in Francia e Spagna. In queste aree, così come in Italia, l’ulivo trovò condizioni climatiche tali da diventare facilmente e ben presto parte integrante del paesaggio. 

Gli utilizzi dell’olio d’oliva sin dall’antichità sono stati i più vari, infatti anche se il ruolo più importante lo riveste nell’alimentazione per la cottura dei cibi e come condimento, l’olio di oliva è anche stato un componente dei cosmetici più antichi, è stato da sempre utilizzato come medicamento, come combustibile e nei riti religiosi.

L’olio extravergine d’oliva è da sempre uno dei prodotti alla base dell’alimentazione dell’uomo. Sia cotto che crudo, è adatto ad ogni età perché facilmente digeribile ed assimilabile. Le sue proprietà nutrizionali e le caratteristiche organolettiche lo rendono, oltre che insostituibile nella gastronomia, anche importante nella prevenzione e cura di molti disturbi e malattie.

Perché l’ulivo è simbolo di pace

Simbolo di sacralità e di pace (la colomba biblica tornò da Noè con un ramo di ulivo nel becco per annunciare il ritiro delle acque dalla terra), l’olivo ha accompagnato la storia dell’uomo dagli albori della civiltà fino ai nostri giorni.
Secondo la mitologia, Atene, capitale dell’Ellade, cuore, centro propulsore intellettuale e politico della civiltà greca, è intimamente legata al suo nume tutelare, alla Glaucopide, dea dagli occhi brillanti come le foglie grigio-verde-argento degli ulivi, ritenuti sostanza di luce e simbolo di sapienza. Per aggiudicarsi il possesso protezione su Atene gareggiarono Poseidone, dio del mare, e Atena, figlia di Zeus, dea della saggezza. Poseidone colpì con il suo tridente la roccia (su cui successivamente sarebbe sorta l’Acropoli) e da questa fece venir fuori una fonte d’acqua marina ed un cavallo più veloce del vento. Atena piantò il primo ulivo, albero che, per millenni, con i suoi frutti avrebbe dato un succo meraviglioso che gli uomini avrebbero potuto usare per la preparazione dei cibi, per la cura del corpo, per la guarigione delle ferite e delle malattie e quale fonte di luce per le abitazioni.

Come l’ulivo sia arrivato dalla Grecia ai giorni nostri, lo scopriremo nei prossimi appuntamenti… Continuate a seguirci!

Fofò Ferriere
Gennaro Fierro