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Caponate e Panzanelle

Arriva il caldo e la nostra cucina si adegua al clima, dal nord al sud, la nostra cultura culinaria è piena di ricette dal tipico carattere estivo ed in pieno stile dieta mediterranea.
Si predilige il piatto unico, quello che si consuma anche in spiaggia e che negli ingredienti dà idea di freschezza e leggerezza. Come non pensare al nostro bel mar mediterraneo in questo periodo e alle tradizioni gastronomiche ispirate dai prodotti delle terre che su di esso si affacciano. E così che pomodori, cetrioli, olive, melenzane, peperoni, occupano uno spazio predominante nella bella stagione condite con il classico olio extravergine di oliva ed accompagnate dai pani di farine tipiche del territorio.

In questo scenario la “Caponata siciliana”, la “Caponata Napoletana” e la “Panzanella Toscana”, incarnano in pieno una cucina cosiddetta “povera” ma estremamente salutare che ben si sposa con il clima estivo e che sempre di più si diffonde in tutto il mondo.

La Caponata Siciliana

Popolarissima già nel XVIII secolo, viene preparata con ortaggi fritti, conditi con sugo di pomodoro, sedano, cipolla, olive e capperi, in una salsa agrodolce. La caponata rappresenta un classico esempio di come nel regno delle due Sicilie il popolo si sia sempre industriato per trovare delle alternative gustose per sopperire alla carenza di ingredienti costosi.
In questo caso, sembra che il termine derivi da “capone” nome con il quale in alcune zone della Sicilia viene chiamata la lampuga, un pesce dalla carne pregiata servito nelle tavole dell’aristocrazia e condito con la salsa agrodolce tipica della caponata. Il popolo, non potendo permettersi il costoso pesce, lo sostituì con le economiche melanzane. Ed è questa la ricetta giunta fino a noi. Appare plausibile, dunque, che la denominazione caponata derivi dal fatto che in origine, fra gli ingredienti principali, ci fosse il pesce capone. Ad supportare questa teoria ci è di conforto il gastronomo ottocentesco Ippolito Cavalcanti che riporta nel suo libro “La cucina teorico-pratica con corrispondente riposto”, pubblicato a Napoli nel 1839 la ricetta antica della caponata costituita da pane biscottato spugnato con aceto e condito con olio, sale, pepe e un po’ di zucchero, sormontate da lattuga e scarola tritate e marinate aceto, olio, sale e pepe, terminata con pesce capone, o sgombro, lessato e “calato” su cetrioli, olive e peperoni.

In ogni realtà siciliana la caponata risente di processi migratori e dominazione che ne arricchiscono ancora di più le varietà, si passa da quella palermitana dove agli ingredienti classici si aggiungono basilico, pinoli e mandorle tostate a quella agrigentina dove è presente anche il peperoncino per passare poi alla trapanese ed alla catanese dove sono presenti anche olive verdi.

La Caponata Napoletana

Anche se meno famosa della siciliana, esiste anche la caponata nella cucina napoletana. Si tratta di un piatto povero preparato con una base di friselle bagnate condite con pomodoro fresco, aglio, olio, origano e basilico, e, quando disponibili, anche acciughe, olive ed altri ingredienti.

La frisella è la base principale della caponata napoletana, chiamata anche fresella in napoletano, è un tarallo di grano duro cotto al forno, tagliato a metà in senso orizzontale e fatto biscottare nuovamente in forno. Essa presenta una faccia porosa e una compatta. Importante è distinguere tra la frisa e il pane: la frisa infatti non è un pane, in quanto è cotto due volte (bis-cotto).
La forma non è il risultato di una ricerca estetica o del caso, ma risponde a precise esigenze di trasporto e conservazione. Le friselle venivano infilate in una cordicella i cui terminali venivano annodati a formare una collana, che era facile appendere per un facile e comodo trasporto e conservazione all’asciutto. La frisella era infatti un pane da viaggio; da qui l’uso di bagnarla in acqua marina da parte dei pescatori, o, come accade a Castellamare, con l’acqua della Madonna  che, mantenendo per le proprie caratteristiche organolettiche inalterate nel tempo, si prestava ad essere utilizzata per lunghi viaggi. A Napoli si dice che la fresella  viene “spugnata” ovvero bagnata nell’acqua prima di essere condita, in modo tale da renderla più morbida. In genere si utilizza anche il brodo di polpo o il sughetto rilasciato dai fagioli. 

La Panzanella

Tipico piatto dell’Italia Centrale amata e consumata da molti secoli. Una versione simile alla classica Panzanella, il così detto “pan lavato”, sembra essere già presente nelle citazioni del Boccaccio nel XIV secolo. Si tratta di un piatto umile, nato dal recupero del pane raffermo, ma che delizia ancora oggi i nostri palati, soprattutto durante il periodo estivo.

Esistono varie versione sull’origine di questo piatto: alcuni ritengono che l’origine della Panzanella vada rintracciata nell’abitudine dei contadini a bagnare il pane secco, per poi condirlo con le verdure disponibili nell’orto. Anche per la Panzanella sembra che le origini siano a bordo delle barche da pesca e anche per quest’ultima sembra si utilizzasse l’acqua di mare per bagnare il pane raffermo e che poi si consumasse insieme a verdure e ortaggi.
Anche sull’origine del nome di questo piatto non si hanno fonti certe e, se da un lato pare che il nome derivi dai termini pane e zanella, ovvero zuppiera, dall’altro lato è forse il termine “panzana” (che originariamente significava “pappa”), ad aver dato vita al nome del piatto.
Le ricette della Panzanella sono moltissime e variano a seconda della regione d’origine e, in alcuni casi, anche da città a città. La base classica della ricetta prevedere l’uso di: pane raffermo, cipolla, basilico, cetriolo, pomodoro, olio d’oliva, aceto e sale e, in certi casi, anche tonno e uovo. Tuttavia, ciò che cambia più spesso in base alla regione di provenienza e il modo in cui viene utilizzato il pane raffermo.
Infatti, se in Toscana e nel Lazio il pane viene prima lasciato in ammollo e poi strizzato e spezzettato, in Umbria e nelle Marche si preferisce unire le fette di pane intere ai restanti ingredienti, senza sbriciolarle.

Insomma, resta il fatto che, comunque le vogliate preparare, la Panzanella e la Caponata  davvero sono dei piatti squisiti e semplice da realizzare. E non è un caso che, nonostante le loro umili origini, nel corso dei secoli le tradizioni che le accompagnano siano arrivate fino a noi.

Buon Sole e soprattutto, buon appetito!

a cura di Vincenzo Russolillo




La cucina contadina: mangiare bene spendendo poco

Ritornare alle origini e riscoprire i gusti del passato, di una cucina genuina e semplice, quella dei contadini italiani, coloro che hanno contribuito più di tutti, con il loro sapere, alla “scrittura” della nostra amata Dieta Mediterranea.
Parliamo di una cucina autentica, fatta di ingredienti “poveri” che affonda le radici in quelle antiche e semplici ricette dal sapore intenso che sono arrivate fino a noi e che oggi sono tutelate dall’Unesco come patrimonio immateriale dell’umanità.

Non sono molti i libri specializzati nella buona cucina contadina di una volta, ed è un peccato, perché la tradizione gastronomica rurale italiana di ogni regione d’Italia è molto ricca e meriterebbe di essere opportunamente documentata. Nel contempo, notevole è lo sforzo che stanno facendo oggi ristoratori, agriturismi  o associazioni come Slow-Food, che  sono impegnati nel recupero e nella valorizzazione della tradizione, e che ripropongono piatti di origine contadina come, ad esempio, il nostro amico Berardino Lombardo che nel suo menù propone l’uovo a sciusciello, il pane cotto con i broccoli, la minestra di cicorie, i peperoni imbottiti, polpette, zuppa di zucchine, frittate e che impiega tanta energia per il recupero e la valorizzazione del suo territorio dell’alto casertano. Nonostante questo, ancora tanto si può fare per riportare il nostro patrimonio gastronomico agli onori che merita, ancora tanti usi e tante consuetudini campagnole possono essere scritte e rese disponibili prima che si perdano nel tempo.

Da questa consapevolezza si può partire per comprendere che quella che definiamo cucina “povera”, che in realtà è una delle più ricche al mondo, sia in termini di ingredienti (biodiversità) che di ricette. La cucina contadina può essere definita una vera e propria arte, con un ingegno tutto italiano e con un’immensa fantasia, spesso alimentata da donne che hanno fatto del bisogno e delle carenze economiche una vera e propria risorsa.
Per descrivere questa cucina bisogna partire dal contadino, che ad un certo punto della sua storia diventa stanziale e che vive per lo più di auto-consumo, facendo raramente ricorso al mercato. In questo scenario, l’unica cosa che era tenuto a rispettare per la propria sussistenza alimentare era il territorio, con tutto quello che era in grado di offrire, egli doveva solo trovare il modo di conservare ed accumulare scorte per periodi di carestia o per l’inverno, quando i prodotti della terra scarseggiavano. Si iniziano così a sperimentare le prime tecniche di conservazioni dei prodotti con l’ausilio dell’olio, del sale e dell’aceto e ad utilizzare le farine per la produzione del pane che gli garantisce per tutto l’anno il sostentamento necessario.

Per intere generazioni rurali il pane, il formaggio e poco altro hanno costituito il pasto regolare, tanto più ricco quanto più si poteva accompagnare con una cipolla, qualche oliva e un buon bicchiere di vino. Ed è proprio dal pane, elemento povero e ricco allo stesso tempo, che emerge il tocco di qualità tipico della cucina contadina. È il pane di ieri, dell’altro ieri e dell’altro ieri ancora che sarà buono anche domani: basterà arricchirlo, accomodarlo di gusto, riutilizzarlo in ricette nuove e gustose.
Proprio dal concetto “il pane di ieri è buono anche domani” nasce nelle comunità contadine il concetto del riciclo degli avanzi, mai concepiti realmente come scarti di cui disfarsi ma, al contrario, considerati un bene, una sorta di piccolo risparmio che, se custodito, consente un utilizzo successivo. Basti pensare che nelle regole scritte di alcuni monasteri del sud Italia c’era quella di non buttare le briciole del pane che alla fine del pasto rimanevano sulla tavola, e di conservarle con cura in un barattolo di vetro pulito, così da poterle riutilizzare al sabato per farne torte o altre preparazioni per i giorni di festa.

Tutta la cucina contadina è quindi incentrata sull’utilizzo di risorse scarse, di ricerca per valorizzarle, di trasformazione delle stesse per renderle disponibili nel tempo. Dai contadini nasce il concetto di conserva, sono loro che iniziano a produrre composte o marmellate, e a loro si deve la più grande abilità nello sfruttare tutto ciò che la natura è in grado di offrire. Anche un animale macellato si rispetta fino in fondo, niente viene buttato, il cosiddetto “quinto quarto” dell’animale è quello che resta ai contadini, ai quali arrivavano soltanto gli scarti delle carni, quelle che restavano dopo aver eliminato i due quarti anteriori e posteriori degli animali destinati alle classi più agiate.

I contadini, però, trovarono il modo di valorizzare quelle parti, le resero nobili con l’utilizzo di spezie o immergendole in sughi o brodi: la trippa, i rognoni , il cuore, il fegato, la milza, il pancreas, il cervello, la lingua, i polmoni, la coratella. venivano utilizzate per zuppe o cotte in umido e rappresentavano per loro l’unico vero apporto di proteine animali. Numerose sono le ricette che sono arrivate fino a noi e qui è d’obbligo ricordare quello che rappresenta la “coda alla vaccinara” oggi per i romani, il “soffritto” per i napoletani, la “lingua cotta” in Friuli o il famoso “pani câ meusa” (milza) a Palermo, e come questi scarti di animali siano oggi presenti in menù di chef stellati di tutto il mondo.

Per concludere, è alla tradizione contadina ed al concetto di riuso ed autosufficienza che ci dovremmo avvicinare per ritrovare il nostro modo di condividere il cibo, a quel “focolare” che scalda il calderone di rame cuocendo lentamente patate, uova, zuppe di legumi, minestre di verdure selvatiche e granaglie. Oggi questo modello è l’unico in grado di garantirci un futuro “biodiverso e rispettoso dei ritmi naturali della natura, delle sue cadenze e dei sui momenti di necessario riposo.

Buon Appetito!

a cura di Vincenzo Russolillo




Saziarsi con gli occhi

Food Porn

Il termine sembra essere stato coniato dalla scrittrice femminista Rosalind Coward nel suo libro Female Desire. La presentazione di un piatto bello a vedersi è un atto di servitù: è un modo per esprimere affetto attraverso un dono… L’attenzione dedicata alla preparazione del cibo, il modo in cui esso viene presentato sono simbolo di una partecipazione e di un coinvolgimento del proprio “sé” nel servire gli altri.

Il Food Porn sostiene esattamente questo: l’immagine che cerchiamo di creare attraverso la preparazione di una pietanza, il modo in cui lo prepariamo, l’atto di fotografarlo, sono legati strettamente al piacere ed al proprio compiacimento.
In particolare, fotografare il cibo oggi è diventato una delle consuetudini più comuni per le generazioni più giovani. Uno studio di YPulse mostra che il 63% delle persone tra i 13 e i 32 anni ha pubblicato almeno una foto di una pietanza sui social network; inoltre, il 57% delle persone della stessa fascia di età ha pubblicato informazioni su una pietanza che stavano mangiando in quel momento. Come si può facilmente constatare, da queste percentuali, il cibo e i social media oggi hanno una connessione molto forte e insieme contribuiscono a fare tendenza e a dettare le leggi di un mercato sempre più dipendente da questi fenomeni.

Il desiderio di cibo ha infatti inondato la Rete, con effetti significativi sui siti di social media che offrono la possibilità di esporre foto come Instagram, Flickr, Snapchat, Facebook e Twitter. Il cibo, oggi, deve essere rappresentato in maniera attraente e, allo stesso tempo, ci si deve mostrare preparati su aspetti culturali, calorie, presentazione, preparazione, gusto, e su qualsiasi altra cosa che aggiunge autenticità a ciò che si sta presentando. Sulla stessa lunghezza d’onda, le televisioni, dove le trasmissioni sul cibo inondano i palinsesti a qualsiasi ora della giornata, contribuiscono massicciamente ad una sovraesposizione di informazioni ed immagini relative al cibo.
Anche nella letteratura contemporanea e nel cinema, il cibo è costantemente legato alla sessualità. Oggi c’è una connessione sempre più evidente tra gli atti fisici di mangiare e di fare sesso nella nostra cultura. Nel suo libro “Food: The KeyConcepts“, Warren Belasco svela questa particolare risonanza tra la cucina e la camera da letto nel vocabolario moderno, assimilando sempre più spesso il cibo ad un oggetto del desiderio.

Qual è l’effetto pornografico su di noi?

La risposta è in una costante altalena tra “abbuffate” , ricerca di prelibatezze di ogni tipo e diete rigide per recuperare la forma fisica. Se la pasticceria, lo zucchero, il grasso, la carne e il sale sono così strettamente legati alle esperienze più intime e piacevoli della vita, come si può farne a meno?

a cura di Vincenzo Russolillo




Con stile anche a tavola

Comfort Food

Metti una sera in casa, la visione di un film del passato e un bel piatto di polpette al sugo, di quelle come le faceva “mammà”.

Comfort Food è il termine utilizzato: il cibo che ci riporta all’infanzia, al piacere provato quando eravamo nutriti tra le braccia delle nostre madri, quello che ritroviamo in una polpetta al sugo che ci cucinava con le passate di pomodoro fatte in casa, nella pizza che ci preparava impastando acqua e farina con le mani, in un dolce della colazione dall’odore genuino, nel cioccolato caldo del mattino del giorno dell’onomastico.

Tutti noi abbiamo i nostri comfort foods, quegli alimenti che ricerchiamo con maggior frequenza e che sono in grado di alleviarci da situazioni di stress, tensione, ansia o altri stati emotivi… Il comfort food è come il posto preferito in cui nascondersi o la coperta di Linus a cui non si rinuncia mai.

Le ricette di queste pietanze che tanto amiamo spaziano dalla cultura gastronomica popolare fino al cibo da fast-food delle multinazionali. Il cibo che fa star bene è genuino, semplice e della tradizione per molti, ma può anche essere altro. Il cibo che conforta, spesso e volentieri, si consuma sul divano, a letto, davanti alla televisione e certi alimenti, specie quelli ricchi di grassi e zuccheri che permettono di sentirsi subito meglio.

Fortunatamente, pare che i cibi consolatori preferiti dagli italiani siano quelli amati da bambini o che ricordano la casa, la famiglia e ritornano con una certa frequenza anche durante la vita adulta, anche semplicemente un piatto di spaghetti al pomodoro fresco può rappresentare per noi un sano piacere; cibi sani e appaganti della tradizione che suscitano nostalgia e rilasciano una sensazione di benessere psico-fisico una volta consumati.Per gli americani il comfort food può essere un cheeseburger da riscaldare nel microonde e mangiare davanti alla tv, oppure un milk-shake, pollo fritto o patatine, e perché no un bel fish and chips arrotolato nella carta per gli inglesi…

Il cibo diventa confortante principalmente per due motivi: la familiarità e la semplicità che ad esso si associano. Le voglie di cibo finiscono quasi sempre per essere più psicologiche che fisiologiche. Il cibo può compensare o anestetizzare momentaneamente disagi emotivi, può rassicurare, appagare o gratificare, può calmare tensioni o colmare vuoti interiori.

In sostanza il cibo è forse l’espressione più vera di ciò che siamo.

Comfort food, quindi, è cibo che coccola. Un connubio tra pietanze ed emozioni. Non è detto in sostanza che sia la solita tavoletta di cioccolato o la ricetta di un grande chef. Basta la lasagna che mangiavate a casa della nonna, la torta addentata alla festa del 18esimo compleanno o ancora il gelato che gustavate proprio pochi secondi prima che lui vi chiedesse la mano o lei vi annunciasse l’arrivo di un figlio.

Ma come vivere a pieno il nostro cibo preferito? Il mio consiglio è quello di prepararlo, di ritrovare il contatto con materie prime genuine, toccare ciò che si sta per mangiare ed attivare tutti i sensi, solo così quell’emozione si trasformerà in una sana, creativa e gustosa esperienza per le papille.

E infine a voi…Qual è il vostro comfort Food?

 

a cura di Vincenzo Russolillo




Il finto menù Napoletano

Dai periodi di carestia, si sa, vengono fuori le idee più strabilianti, si aguzza l’ingegno, si inventano cose per far fronte a necessità impellenti e a cui non si può far fronte per mancanza di risorse.

E così accade in cucina, e soprattutto in quella Partenopea, lì dove inventiva ce n’é da vendere e dove i periodi di carestia nella storia non sono stati pochi. Ecco che allora qualcosa dove saltar fuori per arricchire ciò che ricco non è, per festeggiare un qualsiasi evento con l’idea che in quel giorno si può santificare la festa con tutto quello che di più buono si può mettere in tavola.

 Ma senza risorse come si fa?

Come si sopperisce ad una carenza che è proprio di base perché manca, per esempio, l’ingrediente principale da cui la ricetta di una prelibata pietanze prende il nome?

E qui la genialità del popolo napoletano viene in soccorso e voi direte: come si potrebbe fare mai? La risposta è: escludendo semplicemente l’ingrediente principale, gustoso e caro ma lasciandolo nel nome che si da a quella pietanza. E che cosa si ottiene in questo modo? È semplice: i Napoletani, attraverso il loro intuito formidabile, hanno tradotto ciò che riportano tante teorie e studi socio-psicologiche sulla formazione del gusto nel cervello e soprattutto quella per la quale noi arriviamo alla degustazione con un’idea preesistente dell’esperienza gustativa che stiamo per avere. Ecco, quindi, che gli spaghetti a vongole, senza vongole, diventano gli spaghetti alle vongole “fuiute” (scappate): in questo modo, quando assaggiamo il piatto, recuperiamo nel nostro cervello il ricordo del piatto originale e ci avviciniamo al gusto che già conosciamo.

Pazzesco vero? Provare per credere!!!

A presto con i finti menù…

Fofò Ferriere
Gennaro Fierro