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Come riconoscere e dove cercare il prugnolo

La stagione dei funghi vive il suo momento migliore e, per l’occasione, il micologo di Dispensa Italiana, Raffaele Capano, ci parla della Calocybe gambosa, meglio conosciuta con altri appellativi come prugnolo, fungo della saetta, fungo di San Giorgio, spinarolo, virno.

Non proprio tipico dell’autunno, anche se reperibile in questo periodo, il fungo di San Giorgio si presenta con caratteristiche ben precise, vediamole insieme

Prugnoli: come riconoscerli

CAPPELLO: sodo e carnoso, inizialmente emisferico/convesso, poi disteso e pianeggiante raramente depresso, dal color bianco crema al nocciola chiaro. Cuticola asciutta e liscia col tempo secco prolungato.

LAMELLE: molto fitte, leggermente decorrenti con lo stesso colore del cappello.

GAMBO: sodo e robusto, cilindrico, panciuto o clavato, ma anche esile e poco consistente, liscio e con colore del cappello.

CARNE: bianca, abbastanza consistente, con odore persistente di farina fresca che si percepisce anche nel fungo cucinato.

Dove e quando trovare il prugnolo

HABITAT: cresce in primavera, raramente anche in autunno, nei pascoli e nelle radure dei boschi in forma isolata o gregaria; in quest’ultimo caso, i gruppi di esemplari possono anche disporsi a formare i classici cerchi delle streghe, oppure particolari forme con andamento a zig zag.

COMMESTIBILITÀ: ottimo e molto ricercato, può essere consumato anche allo stato crudo.

CURIOSITÀ: tipicamente primaverile è soprannominato anche “Fungo di San Giorgio” in quanto la sua crescita coincide con la festività del Santo (23 Aprile).

Fungo di San Giorgio in cucina

Fettuccine con erbette selvatiche e prugnoli

Pulire molto accuratamente c.a. 350 gr. di prugnoli (Calocybe gambosa) e tagliuzzarli finemente. Mondare e lessare circa 350 gr di erbetta selvatica, nella fattispecie “Silene vulgaris”, saltarla appena in padella con un fondo di olio e aglio.
In una casseruola larga e a bordo basso, a parte, soffriggere uno spicchio d’aglio in quattro cucchiai di olio di oliva, fino a farlo dorare. Aggiungere i funghi, qualche pomodorino fresco, sale e pepe quanto basta e cuocere per circa 10-15 minuti.
Nel frattempo, far bollire in abbondante acqua salata 400 gr. di fettuccine all’uovo, scolare al dente e versare nella pentola con i funghi.
A fuoco medio, mantecare molto bene, aggiungendo una manciata di parmigiano, grattugiato al momento, un cucchiaio di prezzemolo tritato fresco e l’erbetta selvatica.
Servire il tutto subito e caldissimo. Per accompagnare, l’ideale è un vino rosso leggero.

Buon appetito!

a cura di Vincenzo Russolillo




Il pomodoro San Marzano

Una delle varietà più popolari campane del pomodoro è il “San Marzano”. Comparso nei primi anni del XIX secolo, sembra derivare da un’ibridazione naturale tra le varietà Fiaschella e Marzanella nel territorio compreso tra Sarno e Nocera Inferiore, o addirittura da una mutazione spontanea apparsa in una popolazione di pomodoro locale denominata Lampadina.
Assunse grande importanza dal punto di vista gastronomico verso la fine ’800, quando sorsero le prime industrie di trasformazione ad opera di Francesco Cirio. Da allora, e fino agli anni ’80, il “pelato” è stato prodotto quasi esclusivamente con il pomodoro proveniente dalla varietà San Marzano, come narra Ferruccio Zago fin dagli anni ’20 nelle sue “Nozioni di Orticoltura” dove scrive: “L’industria dei pelati è vanto della Campania.  La varietà di pomodoro impiegato è conosciuta col nome di S. Marzano, chiamata anche “lunga”, dalla forma della bacca, estesamente coltivata nell’ Agro sarnese nocerino”. È stato per quasi un secolo “l’oro rosso” delle pianure fertili nell’agro nocerino- sarnese e nell’agro acerrano-nolano, tutto il pelato che veniva prodotto dalle industrie campane era realizzato con le diverse popolazioni di pomodoro San Marzano.

Perché diverse popolazioni di San Marzano?

La risposta ci è data dal modello di agricoltura che era in uso in quel periodo: un’agricoltura fatta di sostanza organica (il concime), fatta di pochi trattamenti alle piante e soprattutto grazie alla presenza dell’agricoltore custode che ogni anno, selezionava i frutti o le piante per estrarre il seme che sarebbe servito per la campagna successiva. Questo lavoro di selezione ha fatto sì che oggi (lavoro iniziato nel 1996 finanziato dall’Assessorato all’Agricoltura della Regione Campania) abbiamo potuto reperire 33 popolazioni diverse di San Marzano appartenenti alle varietà San Marzano 2 e 4: queste popolazioni fanno parte della Banca Regionale del germoplasma orticolo e le sementi conservate  sono a disposizione degli agricoltori campani.

Perché il pomodoro San Marzano è scomparso alla fine anni degli ’80?

A fine anno ’80 iniziarono a diffondersi anche in Campania i primi pomodori lunghi da pelato “americani”: si trattava di ibridi F1 che erano molto differenti dal pomodoro San Marzano tranne per la forma allungata: le piante erano determinate e quindi non avevano bisogno di tutori (pali di legno); i frutti erano più consistenti; la produzione ad ettaro più elevata e al massimo si facevano due raccolte.
In questo scenario, il Pomodoro San Marzano presentava scarsa competitività in termini di costi di coltivazione, una obsolescenza degli ecotipi di San Marzano (variabilità intra ed extra ecotipo), ovvero mentre i frutti degli ibridi erano tutti più o meno uguali (stessa forma e pezzatura) quelli delle diverse popolazioni di San Marzano erano molto diversi tra di loro e all’interno dello stesso ecotipo. L’introduzione della chimica in tutte le diverse fasi di coltivazione (dai concimi agli antiparassitari) e l’assenza di rotazioni  (dovuta alle piccole dimensioni e struttura delle aziende produttrici di San Marzano) determinarono condizioni di “stanchezza del terreno” con conseguente diffusione di alcune malattie  tra le quali le virosi e “la radice suberosa”.

In sintesi, la concomitanza di tutte queste cause ha determinato, più che la scomparsa, la coltivazione del San Marzano esclusivamente negli orti familiari delle aziende agricole dell’area DOP.

Il rilancio del pomodoro San Marzano

Agli inizi degli anni ’90, l’allora SME Ricerche oggi ARCA 2010,  fu promotore insieme con altri Enti pubblici e Regione Campania di diverse iniziative per la valorizzazione  rilancio del San Mazano.
Arca 2010 (ex Sme Ricerche) attivò un programma di miglioramento genetico sul pomodoro San Marzano finalizzato a raggiungere una serie di obiettivi, quali:

  • aumento delle rese produttive
  • introduzione di resistenze a patogeni
  • aumento della consistenza dei frutti
  • maggiore uniformità dei frutti sulla pianta
  • mantenimento caratteristiche organolettiche e qualitative originarie del San Marzano
  • riduzione dei difetti di collettatura del frutto.

Parallelamente, partì  un progetto per l’ottimizzazione della produzione che si realizzò attraverso:

  • l’ottimizzazione delle tecniche colturali;
  • l’introduzione di agrotecniche innovative (es. tunnel antiafidico);
  • prove di coltivazione in aziende agricole delle nuove cultivar  provenienti dall’attività di miglioramento genetico; 
  • prove di trasformazione delle nuove varietà;
  • valutazione delle caratteristiche organolettiche dei prodotti ottenuti attraverso analisi sensoriali.

Il risultato di tutte queste attività fu l’iscrizione al registro varietale di diverse cultivar di pomodoro afferenti alla tipologia San Marzano e la richiesta autorizzazione al MIPAF per ammissione della nuova varietà al disciplinare di produzione del pomodoro San Marzano dell’agro sarnese nocerino D.O.P.
Attualmente  Le varietà/ecotipi ammessi alla DOP sono:

  • Kiros  (varietà migliorata)
  • San Marzano 2
  • Popolazioni/accessioni di San Marzano 2

Altro passo fondamentale per il rilancio del San Marzano è stato il riconoscimento della DOP nel luglio 1996 da parte dell’U.E.

Le popolazioni/accessioni: nel 1996 è stata costituita la prima banca del germoplasma grazie ad un lavoro di raccolta, moltiplicazione, conservazione di 33 popolazioni/accessioni ascrivibili al pomodoro San Marzano varietà 2 e 4. Questo lavoro fu finanziato dall’Assessorato all’Agricoltura della Regione Campania e il lavoro di moltiplicazione e conservazione è proseguito negli anni successivi attraverso diversi progetti finanziati tra cui l’ultimo della Regione Campania con fondi PSR 2007-2013 misura 214 f2.
Attualmente Kiros è la varietà di riferimento per la produzione del San Marzano DOP, in pratica rappresenta più  il 90% di tutta la produzione DOP, ed è per tale ragione che Slow Food Campania, al fine di scongiurare la scomparsa dei vecchi ecotipi\popolazioni di pomodoro San Marzano, ha realizzato un Presidìo denominato “Antichi pomodori di Napoli“.  Il Presidìo vuole valorizzare la coltivazione di questi pomodori tradizionalmente campani ravviando la produzione di questi ecotipi/popolazioni antichi: oggi i coltivatori aderenti producono oltre ai pomodori freschi, i pelati, la passata e altre conserve tradizionali.

a cura di Vincenzo Russolillo




Funghi: dove e quando – Porcini d’estate

Il nostro micologo, Raffaele Capano, mese dopo mese ci guida alla scoperta dei funghi tipici del periodo: ce ne svela caratteristiche, curiosità e consigli d’utilizzo per esaltarne magnificamente tutti i sapori.
Il fungo di questo mese è il Boletus aestivalis (Porcino d’estate)

Come riconoscere i porcini

CAPPELLO: può raggiungere il diametro di 25 cm. Sodo e carnoso, con colore variabile che va dal beige chiaro al nocciola, o al rosso mattone scuro;

IMENOFORO: (o parte fertile) a tubuli lunghi, inizialmente bianchi, poi giallognoli infine, a maturità raggiunta, si presentano di un verde scuro o olivastro;

GAMBO: robusto e  panciuto, rivestito per il suo intero da un evidente reticolo biancastro– crema, sempre presente;

CARNE: bianca e immutabile con pronunciato e gradevole profumo.

Porcini: quando e dove cercarli

Il Boletus aestivalis (Porcino d’estate) cresce dalla tarda primavera fino all’autunno inoltrato, nei boschi caldi di latifoglie e conifere. È un fungo di qualità eccellenti, il porcino più profumato del gruppo edulis  (ovvero a carne bianca immutabile).

Come mangiare i porcini

Il Boletus aestivalis (Porcino d’estate) è un fungo che può essere consumato anche allo stato crudo, tagliato a fettine sottili con noci, rucola e scaglie di parmigiano con aggiunta di olio E.V.O., sale e pepe.

a cura di Vincenzo Russolillo




I Funghi: conosciamoli meglio

Considerati in passato “divisione del regno vegetale” come i muschi e le alghe, i funghi, negli ultimi decenni e dopo approfonditi studi sistematici, sono stati raggruppati in un proprio regno. Essi, difatti, sono detti eterotrofi poiché, a differenza delle piante, non hanno vita autonoma ma dipendono da altri organismi. Hanno inoltre, nel citoplasma delle loro cellule, come sostanza di riserva, il glicogeno e non l’amido.
La parete cellulare delle ife fungine è fatta di Chitina e non di Cellulosa: la chitina è presente negli esoscheletri di alcuni insetti e crostacei, mentre la cellulosa nelle piante, ragione per cui, fisiologicamente, essi sono più vicini al mondo degli animali che a quello dei vegetali. Le cellule dei funghi non contengono clorofilla, di conseguenza la luce solare non è per loro significativa, se non per pigmentazione della superficie pileica (cappello), che si differenzia all’interno della stessa specie.

L’assenza di clorofilla condiziona il modus vivendi del fungo che può nutrirsi in 3 differenti modi:

1)Per saprofitismo: quando ricava sostanza organica -vegetale o animale- da materie in decomposizione. Questa è una funzione molto importante in natura, attraverso la quale tutti i residui animali e vegetali si degradano preparando, in tal modo, ai microorganismi della putrefazione, il terreno necessario per la loro indispensabile opera di distruzione;

2)Per parassitismo: in questo caso il fungo si nutre di una sostanza organica, ma biologicamente già malata o danneggiata. Quindi, raramente, si comporta da vero parassita poiché la sua azione di attacco è sempre agevolata dalle condizioni biologiche è fisiologiche della pianta o dell’animale stesso;

3)Per simbiosi: quando il fungo avvolge con il suo micelio l’estremità dei peli radicali della pianta dalla quale ricava nutrimento, che autonomamente non potrebbe mai sintetizzare, perché privo di clorofilla. La pianta, di conseguenza, attraverso la micorriza, aumenta la superficie assorbente delle sue radici, migliora l’assorbimento degli elementi chimico-fisici contenuti nel terreno (acqua, sali minerali, ecc.), migliorando notevolmente la sua crescita. I funghi micorrizici sono molto importanti per la vita di un bosco, in quanto come precedentemente descritto, contribuiscono alla nutrizione e al benessere delle piante. Quindi per i suddetti motivi vanno rigorosamente protetti e non distrutti o scalciati anche se velenosi o non commestibili. È importantissimo rispettare tali leggi naturali per la futura sopravvivenza degli habitat boschivi.

Nei prossimi appuntamenti analizzeremo varie tipologie di funghi con le relative possibili applicazioni in cucina.

a cura di Vincenzo Russolillo




Le vigne metropolitane di Napoli

Quella nella foto è la vigna della certosa di San Martino, la più conosciuta delle vigne di Napoli, uno degli scorci più rappresentati da almeno sei secoli per la sua bellezza. La certosa è in posizione dominante, così la volle Carlo d’Angiò duca di Calabria, nel 1325, istituendo l’ordine dei certosini, particolarmente favorito dai francesi, sul colle di Sant’Erasmo.  È da allora uno dei simboli di Napoli, essendo visibile da ogni parte della città. Sette ettari unici al mondo, oggi sono di proprietà del gallerista Giuseppe Morra che ha saputo valorizzarli, recuperandoli e istituendo l’Associazione Amici della Vigna di San Martino, promotrice ogni anno di eventi culturali ed artistici.
Nel 2010 è divenuta Monumento Nazionale, e rientra nell’affascinante percorso di trekking cittadino, condotto lungo l’antica Pedementina di San Martino, che dalla piazza di ingresso alla certosa, attraverso lunghe e tortuose rampe di ben 414 gradini, raggiunge il centro storico.
Fino a quando non ci si reca di persona, non si può immaginare l’esperienza unica che questa realtà regala rampa dopo rampa, tra orti, vigne, vecchi casali, piccole case fiorite e scorci di panorama mozzafiato.

Quante vigne ci sono a Napoli?

Pochi sanno che Napoli è la seconda metropoli in Europa, dopo Vienna, per estensione di vigneti. Partenope, e poi Neapolis, non hanno voluto perdere l’antica anima vignaiola che in altri tempi occupava totalmente le colline che dal Vomero e Posillipo si estendono fino a tutti i Campi Flegrei.
Oggi, all’interno delle mura della città ne rimangono poco più di 260.000 ettari ed una produzione di circa 64.000 bottiglie. Furono i greci, già prima di Cristo, ad introdurre sulle colline posillipine una viticoltura specializzata, dove la vite era allevata bassa e veniva legata ai tutori, mentre all’interno delle campagne dell’agro-aversano, gli etruschi lasciavano altissime le liane avvinghiarsi agli alberi.
Mentre la vigna di San Martino ha una identità culturale e di tutela del paesaggio, c’è chi tra i vigneti metropolitani continua a fare vino da commercializzare. A suon di zappa, Raffaele Moccia produce ottimi vini napoletani attorno al cratere di Agnano. L’azienda si chiama Agnanum ed i filari di Falanghina e Piedirosso si estendono su strette terrazze composte da terreno quasi polveroso, sottile, friabile che va faticosamente lavorato perché non si disciolga con le piogge. Il suo è stato riconosciuto come vigneto storico e le piante centenarie sono a piede franco, grazie al fatto che su questi suoli la fillossera non attecchisce. Un valore aggiunto notevole che esalta il carattere e rafforza l’identità territoriale dei vini. Le bottiglie di Raffaele sono molto richieste sia in Italia che all’estero, ma pare che lui quasi non se ne accorga.
Le terrazze vitate sono attraversate dal muro di confine del cratere degli Astroni che racchiude un bosco incantato, mentre il cratere di Agnano è stato ingoiato dal cemento dei tanti edifici e della selvaggia speculazione edilizia.
Dall’altra parte degli Astroni, ci sono Emanuela Russo e suo marito Gerardo Vernazzano che hanno fatto un ottimo lavoro di recupero di alcuni terreni dove appunto si producono vini delle vigne metropolitane di Napoli. La doc qui è Campi Flegrei, la cantina è quella degli Astroni a sua volta molto seguita dagli eno-appassionati nazionali ed esteri. Sulla collina di Chiaiano i giovani Luca ed Antonio Palumbo raccolgono uva Falanghina con la quale danno vita alle bollicine partenopee dello spumante Flaegreo. Sempre a Chiaiano, la famiglia Quaranta conduce la cantina Le Vigne di Partenope.
Come avrete capito, la Falanghina è l’uva destinata ai vini bianchi ed il Piedirosso, nella lingua napoletana “pied’e palumm’, ai vini rossi. A Santo Strato, sulle colline di Posillipo, troviamo una chicca, l’uva rosa, quella citata da Ernesto Murolo nella sua meravigliosa canzone del 1904 Pusilleco Addiruso: Ncoppo ‘o capo ‘e Pusillico Addiruso, addò stu core se n’è ghiuto ‘e casa, ce sta nu pergulato d’uva rosa. A portarlo avanti è Salvatore Varriale, proprietario del famoso ristorante Rosiello, insieme ai filari di Fananghina e Piedirosso in un contesto paesaggistico unico ed affascinante che sembra tuffarsi nel mare.

Il fascino di Partenope perdura nei secoli, nei millenni, non è sempre ostentato nella sua bellezza, alcune volte va ricercato in angoli nascosti, di antica memoria, sospesi tra mito, storia e la vita di tutti i giorni. Napoli, anche nella realtà delle vigne metropolitane, rimane città d’amore, come meravigliosamente l’ha decantata Matilde Serao:

Se interrogate uno storico, o buoni e amabili lettori, vi risponderà che la tomba della bella Parthenope è sull’altura di San Giovanni Maggiore, dove allora il mare lambiva il piede della montagnola. Un altro vi dirà che è sull’altura di Sant’Aniello, verso la campagna, sotto Capodimonte. Ebbene io vi dico che non è vero, Parthenope non ha tomba, Parthenope non è morta. Ella vive, splendida, giovane e bella, da cinquemila anni…  È lei che fa folleggiare la città; è lei che fa languire ed impallidire d’amore; è lei che la fa contorcere di passione nelle giornate violente dello agosto. Parthenope, la vergine, la donna, non muore, non muore, non ha tomba, è immortale, è l’amore, Napoli è la città dell’amore”.

Marina Alaimo




Il pomodoro in Campania

La storia

La pianta è originaria del Cile e dell’Ecuador, dove per effetto del clima tropicale offre i suoi frutti tutto l’anno, mentre nelle nostre regioni ha un ciclo annuale limitato all’estate, se coltivata all’aperto. 
Dominatore della gastronomia napoletana e largamente diffuso in tutto il mondo per il suo gusto oltre che per le sue importanti proprietà dietetiche, il pomodoro ha tuttavia raggiunto le cucine europee in tempi relativamente recenti e, sebbene importato già nel Cinquecento, soltanto due secoli dopo è stato impiegato nell’alimentazione. 

La coltivazione della pianta del pomodoro era diffusa già in epoca precolombiana in Messico e Perù, fu poi introdotta in Europa dagli Spagnoli nel XVI secolo, ma non come ortaggio commestibile, bensì come pianta ornamentale, ritenuta addirittura velenosa per il suo alto contenuto di solanina, sostanza considerata a quell’epoca dannosa per l’uomo. Infatti, nel 1544 l’erborista italiano Pietro Matthioli classificò la pianta del pomodoro fra le specie velenose, anche se ammise di aver sentito voci secondo le quali in alcune regioni il suo frutto veniva mangiato fritto nell’olio. 
Inoltre, al pomodoro venivano attribuiti misteriosi poteri eccitanti ed afrodisiaci e, per tale motivo, veniva impiegato in pozioni e filtri magici dagli alchimisti del ‘500 e del ‘600. Forse ciò aiuta a comprendere anche i nomi che le varie lingue europee attribuirono a questa pianta proveniente dal nuovo mondo: love apple in inglese, pomme d’amour in francese, Libesapfel in tedesco e pomo (o mela) d’oro in italiano, tutte definizioni con un esplicito riferimento all’amore. Va ricordato, per completezza, che altre fonti fanno risalire il nome ad una storpiatura dell’espressione pomo dei Mori, giacché il pomodoro appartiene alla famiglia delle solanacee cui appartiene anche la melanzana, ortaggio a quei tempi preferito da tutto il mondo arabo. Oggi, con l’eccezione dell’italiano, le vecchie espressioni sono state sostituite in tutte le altre lingue da derivazioni dell’originario termine azteco tomatl. Ma, anche in questo caso, il nome è frutto di un errore.
La pianta che fu importata in Europa era chiamata dagli Aztechi xitomatl, che significa grande tomatl. La tomatl era un’altra pianta, simile al pomodoro, ma più piccola e con i frutti di colore verde-giallo (chiamata oggi Tomatillo ed impiegata nella cucina centro-americana). Gli Spagnoli chiamarono entrambe tomate e ciò diede origine alla confusione.

Non è ben chiaro come e dove, nell’Europa barocca, il frutto esotico di una pianta ornamentale, accompagnata da un alone di mistero e da una serie di credenze e dicerie popolari, comparisse sulla tavola di qualche coraggioso (oppure affamato) contadino. Infatti, gli stessi indigeni del Perù, i primi coltivatori del pomodoro, non mangiavano i frutti della pianta, usata invece a solo scopo ornamentale e come tale fu conosciuta dagli Europei: nel 1640 la nobiltà di Tolone regalò al cardinale Richelieu, come atto di ossequio, quattro piante di pomodoro, e sempre in Francia era usanza per gli uomini offrire piantine di pomodoro alle dame, come atto d’amor gentile. Così la coltivazione del pomodoro, come pianta ornamentale, dalla Spagna, forse attraverso il Marocco, si diffuse in tutto il bacino del Mediterraneo, trovando il clima adatto per il suo sviluppo, soprattutto in Italia, nella regione dell’agro nocerino-sarnese, tra Napoli e Salerno.

Scarsissima è, inoltre, la documentazione relativa all’uso alimentare: le prime sporadiche segnalazioni di impiego del suo frutto come alimento commestibile, fresco o spremuto e bollito per farne un sugo, si registrano in varie regioni dell’Europa meridionale del XVII secolo. Soltanto alla fine del Settecento la coltivazione a scopo alimentare del pomodoro conobbe un forte impulso in Europa, principalmente in Francia e nell’Italia meridionale. Ma mentre in Francia il pomodoro veniva consumato soltanto alla corte dei re, a Napoli si diffuse rapidamente tra la popolazione, storicamente oppressa dai morsi della fame! Nel 1762, ne furono definite le tecniche di conservazione in seguito agli studi di Lazzaro Spallanzani che, per primo, notò come gli estratti fatti bollire e posti in contenitori chiusi non si alterassero. In seguito, nel 1809, un cuoco parigino, Nicolas Appert, pubblicò l’opera L’art de conserver les substances alimentaires d’origine animale et végétale pour pleusieurs années, dove fra gli altri alimenti era citato anche il pomodoro.

Negli Stati Uniti ed in genere nelle Americhe, da cui proveniva, l’affermazione del pomodoro come ortaggio commestibile trovò invece molte più difficoltà per la diffusa convinzione popolare dei suoi poteri tossici. Tuttavia, nel 1820 il colonnello statunitense Robert Gibbon Johnson decise di mangiare, provocatoriamente, davanti ad una folla prevenuta e sorpresa, un pomodoro senza per questo morirne. Addirittura, si narra, che alcuni avversari politici del Presidente americano Abrahm Lincoln convinsero il cuoco della Casa bianca a preparare una pietanza a base di pomodoro per avvelenarlo. Ovviamente, dopo la cena, la congiura fu scoperta, anzi l’episodio contribuì a rendere popolare il pomodoro, poiché Lincoln ne divenne un appassionato consumatore.
Ma è solo nell’Ottocento che il pomodoro fu inserito nei primi trattati gastronomici europei, come nell’edizione del 1819 del Cuoco Galante a firma del grande cuoco napoletano di corte Vincenzo Corrado, dove sono descritte molte ricette con pomodori farciti e poi fritti: 
“Per servirli bisogna prima rotolarli su le braci o, per poco, metterli nell’acqua bollente per toglierli la pelle. Se li tolgono i semi o dividendoli per metà, o pure facendoli una buca.” (da Il cuoco galante, prima ed., Napoli 1773) 

Come risulta anche da altre fonti Vincenzo Corrado usava il pomodoro nelle sue ricette già all’epoca della prima edizione del libro, ma senza mai abbinarlo alla pasta né tantomeno alla pizza!
Finalmente nel 1839, il napoletano Don Ippolito Cavalcanti, Duca di Buonvicino, codificando quello che presumibilmente era diventata nel popolino un’usanza alquanto diffusa, nella seconda edizione della sua Cucina Teorico Pratica propose di condire la pasta col pomodoro ed illustrò la prima ricetta del ragù. 

E, citando la Serao, la geniale intuizione di abbinare il sugo di pomodoro alla pasta e poi alla pizza ha reso felici e continuerà a rendere felici non solo generazioni di napoletani, ma tutti coloro che amano ed apprezzano la nostra cucina.

Patrizia Spigno