Il Caffè
Il primo pensiero del mattino? Una tazza di Caffè…
Chi di noi non si sveglia con quel pensiero? Chi lo prende a casa, chi al bar, chi amaro, qualcuno lo preferisce macchiato, ristretto, lungo, caldo, nessuno sembra possa farne a meno.
Intorno a questa bevanda “scura e puzzolente”, come qualcuno la definisce, si sono formate vere e proprie scuole di pensiero, università, associazioni, confraternite e poi infiniti dibattiti, modi di vivere e di condividere questa consuetudine che, in realtà, è un vero e proprio “culto”.
Il caffè non nasce come bevanda a Napoli ma come il babà, il pomodoro, la pasta e tanti altri prodotti, è in questa città che esplode e diventa “POP” contribuendo alla diffusione di questo rito in tutto il mondo.
Come il caffè arrivò a Napoli
Partendo dall’etimologia della parola, se ne traccia anche il percorso geografico: caffè deriva dall’arabo qahwa (eccitante), poi divenuto kahve in Turchia, terra dalla quale è approdato in Europa. La pianta è originaria dell’Etiopia e si diffonde in Arabia e Turchia. Fu Vienna la prima città europea ad apprezzare questa bevanda così piacevole, introdotta in loco nel 1665 dal pascià Kara Mahmud nel ruolo di ambasciatore turco alla corte di Leopoldo I, tanto da dedicarle alla fine del XVII secolo i Kaffeehaus, raffinati caffè viennesi dei quali ci sono ancora deliziose testimonianze. Nella splendida Napoli del periodo dei Borbone, il culto del caffè giunse con Maria Carolina D’Asburgo, figlia di Maria Teresa, divenuta moglie di re Ferdinando IV di Borbone nel 1768.
La diffusione nelle classi sociali meno abbienti iniziò solo agli inizi dell’‘800: fu solo allora, infatti, che la città si arricchì delle grida colorite di caffettieri ambulanti. Queste figure, ormai scomparse, percorrevano la città in lungo e in largo, muniti di due recipienti, uno pieno di caffè e l’altro di latte, e di un cesto con tazze e zucchero. I caffettieri, oltre a fornire una colazione veloce ai napoletani più affrettati, urlavano ogni giorno il nome del santo che si festeggiava, in modo che i più sbadati ricordassero anche di fare gli auguri ad amici e parenti.
In seguito fu comunque Napoli ad eccellere nella preparazione del caffè utilizzando una tostatura dei chicchi decisa, così da conferire un gusto ricco e cremoso in tazzina. L’arrivo poi della “cocumella” nelle case dei napoletani favorì l’inserimento della bevanda nella cultura popolare: definita “la caffettiera napoletana”, anche se oggi quasi nessuno la usa più perché poco pratica rispetto alla moka, un po’ tutti amano averla in casa o regalarla.
A Napoli, inoltre, il caffè viene celebrato nella musica, nel cinema e nel teatro con canzoni, scene di film e addirittura nel celebre monologo di Eduardo De Filippo in “Questi Fantasmi”:
Sul becco io ci metto questo coppitello di carta… Pare niente, questo coppitello, ma ci ha la sua funzione… E già, perché il fumo denso del primo caffè che scorre, che poi è il più carico, non si disperde. Come pure, professo’, prima di colare l’acqua, che bisogna farla bollire per tre o quattro minuti, per lo meno, prima di colarla, vi dicevo, nella parte interna della capsula bucherellata, bisogna cospargervi mezzo cucchiaino di polvere appena macinata. Un piccolo segreto! In modo che, nel momento della colata, l’acqua, in pieno bollore, già si aromatizza per conto suo.
Ogni napoletano diventa quindi un alchimista del caffè: tutti hanno teorie, procedimenti e trucchi per preparare la bevanda, formatisi attraverso anni di preparazione e frequentazione di caffettiere e bar. Certo, c’è chi è più bravo e chi è meno bravo, ma quel che è certo è che il caffè entra a pieno titolo in ogni famiglia come elemento insostituibile e non c’è mattina o “post pranzo” in cui questa pratica non venga rinnovata.
Oggi non ci sono più carrettini ambulanti, la moka sta lasciando spazio alle cialde, ma il caffè, come duecento anni fa, serve ancora a creare legami, a confidarsi, a raccontare storie che senza quell’aroma e quell’odore forse non troverebbero la loro espressione.
Nun ce sta’ nien a fa’, o’ cafè è “social”!!!
a cura di Vincenzo Russolillo